“Dentro di te immaginavo tutte quelle luci al neon, la folla che si accalcava attorno alla stazione di Shinjuku, pazzesca notte elettrica. Tu ti muovevi in quella maniera, il ritmo della nuova era, sognante e lontano dal suolo di qualsiasi nazione”. 

(William Gibson, New Rose Hotel)

 

Una volta i virus erano lenti. Dracula si muoveva per mare. I suoi avversari, invece, viaggiavano in treno. Scrivevano telegrammi. Il vecchio mondo, Dracula, è sconfitto dalla tecnologia. “Ma dove si raggiunge il massimo di consapevolezza sul potere della comunicazione è nel Dracula di Bram Stoker”, scrive Alberto Abruzzese ne La grande scimmia. “La cosa più importante”, continua Abruzzese, “è che questo racconto […] si risolve nella raccolta di ogni tipo di informazioni: pagina scritta a mano, pagina dattiloscritta, registrazioni al fonografo, pagine stampate, telegrammi. Ogni tipo di comunicazione […]: diari personali, lettere private, intime, lettere professionali, diari stenografici […]”. Soprattutto, ed è l’aspetto più importante, “a questa fitta trama di informazioni oggettivate […] corrisponde l’intreccio di diverse forme di 'viaggio' su cui si fondano i fatti […]”. Si giunge in questo modo al fulcro dello scontro che racconta Stoker: “Mentre Dracula – secondo la sua natura diabolica – può trasmettere informazioni nel modo più sofisticato della telepatia, ma per spostare il suo corpo ha l’ostacolo del suo stesso cadavere […], i suoi persecutori ritrovano un punto d’equilibrio tra informazioni e comunicazioni e vincono su questo piano. […] Dracula viene sconfitto nel punto d’equilibrio di un sistema di comunicazione che lo sovrasta”. Dracula, il vecchio mondo, viene sconfitto, mcluhanianamente, dagli strumenti del comunicare. Il corpo del non-morto è pesante; gli altri, gli avversari, nonostante tutto, si possono smaterializzare, diversamente da Dracula, perché possono estendere il loro sistema nervoso che, attraverso il sistema intercomunicante degli strumenti del comunicare, diventa una rete. Accessibile, condivisibile, aperta. Ed è in questa rete che il virus Dracula finisce fatalmente per cadere. Gli avversari di Dracula creano uno spazio di comunicazionale virtuale, di fatto inventandolo attraverso l’intreccio delle loro informazioni che, proprio come una rete, si chiude intorno a lui. Ed è proprio questo spazio interiore, che si struttura intorno alla tecnologia della comunicazione, a offrirsi come uno dei luoghi forti della narrativa del ventesimo secolo.

Passando per J.G. Ballard, cronista dell’implosione di questa rete comunicazionale che ne La mostra delle atrocità trova la sua rappresentazione più attendibile, dopo che William S. Burroughs ne aveva delineato i tratti dominati a partire da Il pasto nudo, l’attimo congelato in cui si vede cosa c’è sulla punta della forchetta. Con l’avvento di William Gibson e di Neuromancer, quando i lettori tradizionali di fantascienza, e non solo loro, non avevano idea di cosa fosse un modem o una banca dati, si inizia a pensare in forme completamente diverse. Il romanzo del 1984 rappresenta una rivoluzione epistemologica, perché è diventata il nostro oggi, il nostro presente. “Un’ondata fosforescente si sollevò nel mio campo visivo, mentre la matrice cominciava a dispiegarmisi nella mente, una scacchiera tridimensionale perfettamente trasparente che si estendeva all’infinito. Mentre entravamo nella griglia mi parve che il programma avesse dato un sobbalzo. Se qualcun altro si fosse inserito in quella parte della matrice avrebbe visto un’ombra guizzante uscire dalla piccola piramide gialla che rappresentava il nostro computer”. Un brano come questo, tratto da La notte che bruciammo Chrome di William Gibson, oggi non sorprende più nessuno. Ciò che all’epoca richiedeva uno sforzo enorme per ristrutturare il principio d’individuazione, oggi assomiglia a un approccio meramente osservazionale. Tutti partecipiamo delle rete e la rete ha ristrutturato la rappresentazione del nostro essere comunità a sua immagine e somiglianza. La rete, anzi, si è quantomeno sdoppiata: ci sono una rete che sta al di qua dell’accesso e una rete mondiale dei dati nella quale ci immergiamo. Inevitabilmente, rispetto alla situazione descritta dal Dracula di Stoker, il virus è non solo velocissimo, ma ovunque.

Una delle ironie di Blackhat, è il piacere documentario di Michael Mann nel mettere in scena la lentezza degli inseguitori che salgono a bordo di elicotteri, auto, aerei, navi per tentare di intercettare un virus che si muove in un’altra dimensione del reale. Nick Hathaway, come il Trabert de La mostra delle atrocità, “sentiva l’urlo lamentoso delle sirene delle auto della polizia, icone neuroniche sulle autostrade spinali”. Introdotto da un’immersione nella rete, che amplia la carrellata laterale finale di Scanners di David Cronenberg, Blackhat è la visione lirica e documentaria di una realtà che da pellicolare è diventata pixellare. L’immagine non ha più alcun legame ontologico con il reale e lo stesso reale si ritrova smarrito di fronte alle moltiplicazioni di se stesso. Non è un caso che Mann stia tentando con forza e determinazione di sottrarre cinema al suo… cinema. Di lasciare in piedi l’immagine come segno di un conflitto. E, naturalmente, questo conflitto è soprattutto il segno di un lavoro, che continua a esistere, ma che non si vede più. Occultato dalla danza infinita dei pixel che hanno sostituito il montaggio invisibile. Fingiamo di credere che la macchina da presa sia ancora una macchina da presa ma in realtà è uno sguardo svincolato dal dispositivo di riproduzione che ambisce esso stesso a diventare produttore di immagini, si immerge in un paesaggio fatto di cavi e ram. Una vera e propria ghost ride, come quelle degli albori del cinema quando la macchina da presa riprendeva le corse dei treni in soggettiva. E sembrava di correre insieme a essa. Come un fantasma. Senza nessuno al volante.

E se le corse delle origini reinventavano la prospettiva attraverso il punto di fuga (il cinema va avanti, come il treno; e non a caso treno e modernità sono vincolati), la corsa che apre Blackhat opera un simile rovesciamento. Andare “avanti” è un illusione perché non esiste più lo spazio in quanto tale. E questo è un altro dei conflitti del film. Hathaway e compagni si muovono ancora in uno spazio esperibile come tale; il virus, invece, fa mondo a se. E l’incongruità dell’inseguimento è tale perché si svolge su due dimensioni completamente diverse. L’abilità di Mann nel mettere in scena la frammentazione del principio di individuazione – e di conseguenza del principio di realtà – è da ricercare nella morbidezza di un montaggio non lineare che nel suo aprirsi sembra corteggiare l’immaterialità dei pixel che compongono l’immagine. Come se i vari tagli di montaggio fossero l’immagine più realistica, documentaria, di un continuo farsi e disfarsi dell’immagine stessa. Come se il montaggio potesse permettere di intuire ciò che l’occhio non riesce (più) a vedere. E la precisione documentaria di Mann è così acuta da riuscire a dar corpo esattamente a quella “nostalgia sempre più acuta ma senza contenuto; una nostalgia sempre più estesa ma senza scopo” preconizzata proprio da Alberto Abruzzese. Perché ciò che mette in scena Mann è un nuovo territorio infinito, riproducibile infinitamente, della circuitazione assoluta.

Blackhat è il regno della smaterializzazione di ogni valuta: la transvalutazione di ogni valore. Il virus ultimo è il denaro. E il denaro un portatore dell’altro virus, individuato da Burroughs, ossia l’"è" di identità (la collezione delle monete ha molto a che fare con le folle….). McLuhan spiega benissimo l’immagine del denaro. “Il denaro è una materia prima, una risorsa naturale […] un’immagine collettiva”. E ancora: “Diventa allora il mezzo principale per mettere in rapporto le attività sempre più specialistiche di una società. […]. Oggi, con i cervelli informatici e le programmazioni elettriche, i mezzi per immagazzinare e trasferire informazioni diventano sempre meno visivi e meccanici e sempre più integrali e organici. […] Nell’era elettronica dell’informazione istantanea spariscono sia il tempo (in quanto misurato visivamente e segmentalmente) sia lo spazio (in quanto uniforme, pittorico e chiuso). E l’uomo pone fine al suo compito di specialista frammentario per assumere la funzione del raccoglitore d’informazione”. Blackhat, in questo senso, elabora compiutamente uno scenario nel quale l’immaterialità del denaro non solo ridisegna relazioni sociali e politiche ma, addirittura, rischia di riscrivere il paesaggio terrestre. La raccolta delle informazioni diventa così un lavoro permanente, infinito, il cui orizzonte è un guadagno esponenziale, commisurato solo all’estendersi stesso dell’universo informazionale. Ed è in questa smaterializzazione, nella quale si rimbalza da un angolo all’altro del pianeta, dove ci si ritrova esuli con tutto il mondo a portata di mano ma nessun posto dove andare, nel quale la riluttanza del corpo è un punto resistenziale, che l’incongruità del desiderio, di uno sguardo che scruta smarrito la curva di un volto, l’incavo di un collo, si offre come discontinuità.

Blackhat, radicalizzando l’approccio di Miami Vice, offre l’immagine più attendibile di un mondo che non è più il nostro. Dove la malinconia infinita di Ghost in the Shell diventa l’orizzonte del quotidiano. “Nel tuo respiro c’era tutta la notte elettrica di una nuova Asia, il futuro che ti saliva dentro come un fluido luminoso, che mi toglieva tutto tranne il momento presente. Era questa la cosa veramente magica: che vivevi al di fuori della storia, tutta nel presente. […] Per qualche ragione i soldi che avevamo preso dall’Hosaka non mi sembravano molto importanti. Non che dubitassi della nostra nuova ricchezza, ma quell’ultima notte con te mi aveva lasciato la convinzione che tutto venisse con naturalezza, nel nuovo ordine delle cose, come funzione di chi e cosa eravamo”.