Figura paradossale e sfuggente a ogni categorizzazione ideologica, Luis Garcia Berlanga ha incarnato un ruolo spartiacque nella storia del cinema spagnolo, avviando dall’inizio degli anni ’50 una trasformazione mirata a prendere le distanze dal cinema nazionale del dopoguerra, pienamente conformato alla volontà del regime franchista e della Chiesa Cattolica. Infatti, a partire dal 1938 il Dipartimento Nazionale di Cinematografia spagnolo aveva creato delle normative per il controllo delle immagini e dei contenuti di film, che dovevano essere approvati dalla censura allo scopo di offrire un’immagine della Spagna tanto edificante quanto dogmatica, e ovviamente bandendo quelli critici nei confronti della dittatura (1).
Già con il suo primo lungometraggio (Benvenuto, Mister Marshall!, 1952) Berlanga inizia a percorrere genialmente la sottile linea di demarcazione tra cinema popolare e cinema populista, dissimulando i desideri della censura per poter creare una parodia al vetriolo della “mitopoiesi franchista”(2), dal momento che Franco aveva sempre insistito nel promuovere il regime ritraendo la Spagna nella sua versione più stereotipata e folkloristica, con il vitalismo dei suoi abitanti, i borghi pittoreschi, il flamenco e le corride. Il regista invece, reduce anche della lezione del neorealismo italiano, incorpora alla perfezione questi elementi sfruttando la dimensione corale e mettendo in scena l’umile paesino Val Del Rio che, nel cercare di attirarsi le simpatie dei tanto generosi quanto fantomatici “Americani” (storicamente, la speranza degli Spagnoli sarebbe stata quelli di ricevere aiuti provenienti dal Piano Marshall, dal quale erano stati esclusi), si trasforma in una sorta di falso set cinematografico il cui scopo è quello di mascherare le condizioni di ordinaria miseria in cui vivono gli abitanti, che non hanno aspirazioni reali, se non quella di inseguire l’illusione che gli Americani sarebbero arrivati a salvare la loro povera cittadina, e dopo essersi privati della propria dignità e aver mendicato inutilmente per ottenere qualche regalo, vedono svanire ogni speranza, rassegnandosi a una vita in cui tutto ciò che possono fare è limitarsi a sognare un cambiamento.
A determinare in maniera fondamentale la carriera di Berlanga sarà l’incontro nel 1959 con lo sceneggiatore Rafael Azcona, che aveva appena esordito insieme a Marco Ferreri adattando per lui il proprio romanzo El pisito. Primo risultato della loro collaborazione è Placido (1961), con il quale il regista si allontana ulteriormente dal cinema di militanza comunista di impronta neorealista che aveva come principale esponente l’amico e antico sodale di Berlanga, Juan Antonio Bardem, il quale verrà arrestato sul set del proprio film Calle Major in seguito alla presa di posizione pubblica contro la produzione cinematografica spagnola irreggimentata. Berlanga deciderà invece di delineare una propria cifra stilista, più teatrale e sovversiva, riscontrabile a partire dalla rappresentazione della gente comune: la massa popolare, tanto celebrata nella visione neorealistica, viene qui declinata nella sua dimensione più caotica e convulsa, in una favola nera in cui le difficoltà e le nevrosi esplosive della vita quotidiana sono raffigurate alla perfezione. Se da un lato il protagonista (il Placido del titolo) deve affrontare mille peripezie per riuscire a pagare una fattura entro mezzanotte ed evitare di perdere il proprio camioncino, vitale per mantenere la propria attività di autotrasportatore e quindi per la sopravvivenza della propria famiglia (costretta a vivere in un bagno pubblico a causa dell’impossibilità di pagare l’affitto), dall’altro Berlanga ironizza con estrema ferocia sull’ipocrisia e la falsa carità della borghesia spagnola, che celebra la vigilia di Natale con una parata e con la farsa di ospitare un mendicante a cena in casa propria, diventando isterica quando uno di questi viene colto da infarto, e dimostrandosi successivamente più preoccupata di far sposare il senzatetto agonizzante con la compagna con cui immoralmente conviveva, piuttosto che salvargli la vita.
Placido otterrà una nomination agli Oscar, ma sarà con il successivo film La ballata del boia (El Verdugo, 1963), sceneggiato da Azcona insieme a Ennio Flaiano e impreziosito dalla fotografia di Tonino Delli Colli, che il regista colpirà al cuore la repressione dello Stato franchista, svelando l’anatomia delle società spagnola di quegli anni, in piena transizione verso la modernità. Il film assume i caratteri di una tragicommedia grottesca dai contorni macabri e narra le vicende di Jose Luis (Nino Manfredi), giovane becchino che vive in un seminterrato con la famiglia del fratello (Berlanga degrada ancora di più gli spazi in cui vivono i personaggi, che si muovono all’interno di vere e proprie alcove) e coltiva il sogno di emigrare in Germania per fare il meccanico, ma si vede costretto a mandare all’aria i propri piani quando si innamorerà della figlia di uno strampalato e anziano boia, al quale aveva dato un passaggio con il furgone del servizio funebre dopo un’esecuzione. Jose Luis, a causa della sua bonaria ingenuità, si ritroverà kafkianamente incastrato in una serie di circostanze fuori dal suo controllo, che lo condurranno prima a sposarsi con la giovane e a creare con lei un nucleo familiare, poi a dover scambiare la propria identità con quella del suocero al fine di ottenere l’assegnazione di una casa popolare, rimanendo così intrappolato in un ruolo di funzionario di morte che doveva essere soltanto di facciata, fino ad essere lui stesso convocato per eseguire una sentenza proprio quando si trovava in vacanza con la famiglia a Palma di Maiorca. La messa in atto dell’esecuzione, procrastinata il più a lungo possibile, determinerà un drammatico punto di non ritorno, dell’individuo, così condannato a una connivenza con il potere di una società prevaricatrice e spietata. Il giustiziere, nell’atto del giustiziare, perderà la propria innocenza diventando una vittima tanto quanto l’uomo giustiziato per mano sua, imbrigliato lui stesso nel marchingegno strangolatore della garrota e ineluttabilmente trasformato in un assassino al servizio dello Stato.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1963, il film ottenne il premio Fipresci dalla critica internazionale, nonostante gli strenui tentativi del governo spagnolo di impedirne la proiezione e la violenta reazione da parte dell’ambasciatore spagnolo, che riteneva il film estremamente diffamatorio nei confronti della società spagnola, tanto che, in seguito, venne distribuito mutilato di venti minuti. Persino il dittatore Franco disse la sua, definendo il regista come “qualcosa di peggio di un comunista, un cattivo Spagnolo”.
L’acclamazione veneziana coincise dunque, per il regista, con un periodo di ostilità in patria, dove gli sarà sempre più difficile realizzare film. I film successivi saranno infatti di produzione argentina (La boutique, 1967) e francese (il controverso Life Size – Grandezza naturale del 1974, con Michel Piccoli protagonista nei panni di un dentista innamorato di una bambola di dimensioni umane). Solo con la morte di Franco nel 1975 Berlanga tornarà a lavorare in Spagna, seppur in rapporto conflittuale con la nuova leadership democratica; a testimonianza del fatto che il regista non perse mai la propria vena corrosiva e la volontà di mettere in luce e irridere il lato grottesco del potere, dittatoriale o democratico che fosse.
LA BALLATA DEL BOIA (El verdugo), regia di Luis García Berlanga, Spagna/Italia, 1963, 95' (RaroVideo)
NOTE
(1) Bilbao, Javier. “Bienvenido, Mister Marshall”, Jot Down Cultural Magazine
(2) Marsh, Steven. “Luis García Berlanga”, Senses of Cinema 2003