Nella mia vita ho avuto l'opportunità di lavorare in due dei circa 300 cinema indipendenti degli Stati Uniti che proiettano principalmente film d'essai. Questi luoghi ospitano un tipo di audience in qualche modo più specializzata, più matura e più capace di discernimento, abbastanza aperta da apprezzare una miscela di pellicole straniere, piccoli film americani, documentari di tutti i generi e quegli occasionali blockbuster che si basano più sulla narrazione che sugli effetti speciali.

Lavorare in un cinema di questo genere era un sogno che diventava realtà – ma, si noti, con tutte le riserve del caso. Era emozionante, divertente, e allo stesso tempo mi provocava emicranie legate a una serie di difficoltà, dai problemi demografici al lavorare con proprietari e consigli d'amministrazione particolarmente restii ai cambiamenti. Ho imparato molto e spero di continuare a farlo ma è chiaro che quelle difficoltà non accennano a sparire nel breve periodo.

I cinema d'essai (chiamati in America “art-house cinema”, n.d.t.) sono esistiti in forme diverse a partire dagli anni Venti, con una crescita notevole nel secondo dopoguerra. Il picco più alto di diffusione ha avuto luogo tra i tardi anni Settanta e i primi Ottanta. Da allora il loro numero è in costante decrescita, nonostante recentemente si stia assistendo a un piccolo revival. Non disponendo del capitale di cui beneficiano le catene e spesso godendo di minore cooperazione da parte delle major e dei distributori specializzati, queste sale incontrano una serie di problemi quando si tratta di acquistare i titoli, il più recente dei quali è stata l'introduzione, negli ultimi cinque anni, della proiezione in digitale.

Generalmente i distributori promuovono la proiezione in digitale, come anche le grandi catene di cinema come la Regal, che (nel 2014) ha eliminato quasi tutti i suoi proiettori per pellicole in 35mm. Ci sono ancora episodi anomali e resistenze, come dimostra il caso di Christopher Nolan, arrivato al punto di offrire Interstellar in anteprima alle sale disposte a proiettarlo in pellicola.

La proiezione in digitale fece il suo debutto nell'estate del 1999 quando Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma della Fox e Un marito ideale della Miramax vennero presentati utilizzando un primo sistema digitale. Ma, oggi, a distanza di quindici anni, il digitale domina ovunque. Tanti piccoli cinema hanno dovuto lanciare campagne di finanziamento per potersi procurare un'apparecchiatura digitale, mentre altri sono stati costretti a chiudere.

“Lo stato dei cinema d'essai è precario, come del resto è sempre stato da quando lavoro in questo campo”, ha affermato Martin McCaffrey, il direttore del cinema Capri a Montgomery, in Alabama. “Il digitale non ha cambiato nulla, ha solo prosciugato le nostre risorse. I film delle major non ci sono più accessibili che ai tempi della pellicola, anzi: le copie in 35mm sono ancora più difficili da ottenere, e molti classici sono proiettabili solo in DVD, quando va bene. Allo stesso modo, nell'ultimo decennio, molti registi indipendenti emergenti hanno girato solo in formato digitale, perciò abbiamo dovuto adottare proiettori video molto prima che la DCI (Digital Cinema Inititative) ce lo imponesse. Il digitale non è che l'ultimo elefante nella stanza: un problema sempre più impossibile da ignorare”.

Toby Leonard, direttore della programmazione del cinema Belcourt di Nashville, evidenzia un altro problema creato dal digitale, quello della formattazione. “Recentemente è accaduto qualcosa di nuovo: un intero lungometraggio che abbiamo ricevuto in tipico formato DCP, ma su una chiavetta USB da 128 GB. Metodo di consegna comune per i trailer, le chiavette da 4 o 8 GB sono ormai ovunque nei cinema perché, nonostante la dimensione dei file vari in base alla compressione, nei video in DCP 1 GB corrisponde a circa un minuto (di proiezione n.d.a.), il che rende le chiavette ideali per spedire file di breve durata. Benché capiti spesso di scaricare file di trailer in DCP zippati, la distribuzione attraverso chiavetta è diventata la norma”.

Nonostante la questione di come gli avventori avrebbero reagito al passaggio dalla proiezione in 35mm a quella in digitale fosse una preoccupazione iniziale, la trasformazione sembra aver avuto poco effetto sul fedele pubblico dei piccoli cinema. “Stiamo tentando di educare gli spettatori all'importanza di apprezzare il medium che guardano. Per la grande maggioranza del nostro pubblico, il passaggio al digitale sarebbe passato sostanzialmente inosservato se non fosse stato per le elaborate campagne di finanziamento intraprese per renderlo possibile”, osserva Dylan Skolnick, codirettore del Cinema Arts Centre di Huntington, New York. “Alcuni spettatori addirittura ci chiedevano quando avremmo comprato i nuovi proiettori mesi dopo che li avevamo installati”.

Per Skolnick e altri, il cambiamento ha implicato il dover prendere una posizione riguardo l'importanza della pellicola. Aggiunge, infatti: “In uno scambio recente su un forum online per proiezionisti e proprietari di cinema, chi affermava di sostenere la proiezione in celluloide è stato accusato di essere un 'feticista della pellicola'. La conversazione era amichevole e il tono senza dubbio scherzoso, ma ha sollevato una domanda cruciale a cui ogni esercente cui stia davvero a cuore il cinema come arte deve dare risposta: è importante che i film (specialmente i classici) siano proiettati nel loro formato originale? Nella nostra sala abbiamo deciso che il medium ha una sua rilevanza e ci siamo impegnati a rendere le proiezioni in pellicola una parte sostanziale e continuativa del nostro lavoro. Se farlo voglia dire preservare una parte fondamentale dell'esperienza cinematografica o soltanto essere dei feticisti sarà il tempo a stabilirlo”.

In ogni caso, Andrew J. Douglas, direttore della didattica al Bryn Mawr Film Institute in Pennsylvania, non ha notato grande preoccupazione tra il pubblico. In generale, gli spettatori consci della differenza sembrano apprezzare la definizione dell'immagine in digitale, ma tendono a esprimere questa preferenza nei termini dell'apprezzamento del processo di rinnovamento avvenuto in contemporanea ai cambiamenti nella tecnologia di proiezione.

“Il tramonto della pellicola è stato triste, per noi, ma proiettiamo principalmente film recenti, quindi è stata una scelta obbligata”, dice Peggy Johnson, direttrice esecutiva del Loft Cinema di Tucson. “Pur riconoscendo la qualità dell'immagine digitale, che è innegabile, preferiamo comunque la stampa in pellicola a un file digitale, se la copia è in buone condizioni”.

Questa serie di problemi legati al digitale si è aggiunta alle difficoltà che tutti i cinema d'essai tendono ad incontrare. Durante i miei tredici anni in New Mexico con la Mesilia Valley Film Society (MVFS) a Las Cruces/Mesilia e al Jean Cocteau Cinema di Santa Fe, ho incontrato una miriade di problemi che non avrei mai pensato di dover affrontare.

Il cinema Fountain, sede dell'MVFS, è un meraviglioso vecchio cinema in mattoni che ha proiettato film d'essai per più di 25 anni. In quanto unico luogo di quel tipo nel raggio di 400 Km, sembrava ovvio immaginare che tutti lo conoscessero, soprattutto perché l'edificio è situato appena fuori da una piazza molto nota in un pittoresco villaggio del New Mexico.

Ma quando lavoravo lì, una delle domande più comuni era: “Da quanto tempo avete aperto?”, a cui solitamente seguiva: “Cosa proiettate?”, oppure, al contrario, “Siete un teatro?” nonostante all'ingresso campeggiasse il cartellone di un film. L'identificabilità del cinema era un problema enorme (così come lo era la leggenda che il cinema proiettasse solo film a tematica gay, con un avventore che ci chiese: “Ci sono ancora le ciotole coi preservativi nei bagni degli uomini?”). Molti spettatori ricordavano di avere già visto un film lì, qualche anno prima, insieme al fatto che il cinema un tempo servisse vino (in modo abbastanza illegale), mentre altri erano amici di qualche ex volontario.

Nonostante entrambi i cinema per i quali lavoravo avessero una singola sala e fossero relativamente piccoli, fui sorpreso, la prima volta che partecipai alla conferenza Art House Convergence a Midway, nello Utah, di scoprire che tutti i cinema avevano problemi simili. “Mentre il Bryn Mawr Film Institute è in procinto di spegnere le sue prime dieci candeline, nel marzo 2013, uno dei problemi più rilevanti – e forse uno dei più sorprendenti per la maggior parte di chi vi lavora – è il numero di persone che vivono nelle immediate vicinanze del BMFI che o non è a conoscenza del fatto che ogni giorni vi si proiettano film nuovi, o che addirittura ignora l'esistenza del centro”, afferma Douglas. “Nonostante l'ingresso illuminato al neon che splende sulla strada principale del paese, pubblicizzando il film in sala in quel momento, ci sono ancora persone che non conoscono il BMFI”.

“Particolarmente irritante è il fatto che buona parte di costoro siano universitari, che in generale rappresentano un'incognita per i cinema d'essai. Nonostante la varietà di film, il prezzo d'ingresso relativamente basso, e tutta la serie di eventi e proiezioni speciali che si rivolgono proprio a loro, il BFMI non sembra attrarre un numero sostanziale dei circa 6000 studenti che popolano i quattro college nel raggio di circa 2 Km. A dire il vero, non mancano alle proiezioni di Il grande Lebowski, The Room, Il grande Gatsby o Gone Girl, ma queste visite suscitate da film specifici raramente si trasformano in una presenza regolare”.

Allo stesso modo, anche la stabilità finanziaria è un problema costante: in un caso clamoroso di cattiva gestione, un ex presidente del consiglio d'amministrazione del MVFS è fuggito con i fondi e si dice che ora faccia film in California (evidentemente un buon sistema per finanziare un film). La società si riprese da quello scandalo ma divenne molto cauta con le proprie finanze a partire da quel momento. Le poche visite, l'incapacità di prenotare i film d'essai più famosi e una popolazione che persino ora resta in qualche modo apatica e difficile da raggiungere, hanno ristretto i budget e reso necessario l'investimento in eventi speciali che garantiscano entrate maggiori.

Un'altra grande preoccupazione espressa dagli altri manager di sale d'essai è il fatto che le minoranze tendano a tenersi a distanza dai cinema d'essai. Tutte le programmazioni volte all'inclusione proposte da varie sale sembrano non avere successo, indipendentemente da dove si trovi il cinema. La regista afro-americana Ava DuVernay ha affrontato questo argomento in un discorso alla conferenza Art House Convergence del 2013. La soluzione proposta, però, era già stata tentata da molti, se non da tutti i cinema, ovvero proiettare più film fatti da o indirizzati a persone di colore o appartenenti alla comunità GLBT. Secondo la mia esperienza, inserire in programmazione più titoli specializzati non solo non attrae l'audience di riferimento, ma rischia di allontanare anche gli avventori abituali.

Sicuramente, attrarre qualunque tipo di audience è una grande sfida, visto che i cinefili di oggi hanno a disposizione molte più tipologie di fruizione rispetto a quaranta anni fa, un problema che a volte è peggiorato dai distributori che riforniscono regolarmente quel mercato. Toby Leonard osserva a questo proposito: “Senza entrare nella questione di come i video on demand abbiano influito sulla proiezione in sala (discorso che mi pare evidente), quando un film esce in rete danneggia anche noi se una società ha deciso di rilasciare il film sia al cinema che in streaming lo stesso giorno”.

“Ogni cinema d'essai è diverso, ma tutti proiettiamo film che (il pubblico medio, n.d.a.) non vuole vedere. Se tutti volessero vederli, sarebbero a sbancare il botteghino di qualche multisala e non in un cinema d'essai”, aggiunge McCaffrey del Capri. “Studiare le programmazioni dei nostri cinema è complesso, dobbiamo cercare di offrire un mix di successo di oscurità artistiche e prodotti popolari che ci permettano di pagare l'affitto. Quando siamo fortunati, dai secondi otteniamo abbastanza da permetterci di poter proiettare i primi”.

Il termine “sure seaters” (letteralmente “posti a sedere sicuri” n.d.a.) nacque tempo fa da un'industria cinematografica ancora certa che i frequentatori dei cinema d'essai non avrebbero avuto alcuna difficoltà a trovare un posto a sedere. Ma, come osserva Barbara Willinsky nel suo ancora rilevante libro del 2000 sui cinema d'essai, intitolato non a caso Sure Seaters: “I tentativi di chi lavora e di chi frequenta i cinema d'essai di creare una nicchia contribuirono in definitiva a dare forma tanto alla struttura economica, sociale e industriale, quanto al significato culturale e ai valori associati all'industria cinematografica, proprio quella dalla quale erano originariamente esclusi”.

Touché.

(testo originariamente pubblicato su Film Comment di gennaio/febbraio 2015; traduzione di Elisa Cuter)