Una slavina, una famiglia come tante, il germe dell’ossessione paranoide. Tre elementi che fanno da perno in Forza maggiore dello svedese Ruben Östlund, lanciato dalla sezione Un Certain Regard di Cannes.

Il film di Östlund, ambientato nella cornice lattiginosa e ieratica delle Alpi francesi, ha vari meriti: da un lato c’è la cura dell'immagine, cui conferisce una patina ricercata, dall’altro una ricerca che prende avvio dalla sceneggiatura (firmata da Östlund stesso) e finisce col mirare un obiettivo preciso: scomporre le forme e gli assetti del nucleo familiare. I quattro componenti, in vacanza durante quella che negli anni Novanta veniva chiamata (con diffuso orgoglio borghese) “settimana bianca”, subiscono il crollo del fortino istituzionale che hanno creduto fino ad allora di incarnare. La causa si scatena durante il secondo giorno di vacanza: quando una slavina rischia di colpirli in pieno, il capofamiglia fugge senza nemmeno tentare di salvare il resto della ciurma.

Lo psicodramma è in agguato: il germe paranoide si insinua volgarmente nell’animo dell’uomo, in quello della donna, e anche nei piccolissimi figli dei due. Le domande, i dubbi e il pianto lacerano gli animi del microcosmo famigliare, che si trova sbandato e in crisi a seguito dell’egoistico gesto paterno, e al confronto de-costruttivo con gli altri gitanti sulle Alpi insieme a loro. Reato imputabile: quello di “forza maggiore”, l’energia a-coscienziosa che ci porta a reagire a un dato evento. Come l’incedere di una slavina, per esempio. 

L’intuizione più azzeccata del film sottolinea, in maniera brillantemente calligrafica, l’idiozia della coppia protagonista. E sottende quello che è il suo reale scopo: quale tipo di famiglia è quella che Forza maggiore depaupera di spessore e pertinenza? Non è dato saperlo; la tensione corrosiva del regista permette di considerare i quattro come popolassero l’ultimo grande, complesso esemplare di famiglia tradizionale. Genitori eterosessuali, ceto medio-alto, educazione dei figli apparentemente canonica. Ma il gruppo potrebbe rappresentare anche l’insegna pretoriana della nuova famiglia, quella che si dichiara a favore del km zero e del cibo biologico e che però non disdegna tablet, lusso e wi-fi. La madre è snella, “carina” e potenzialmente libera; in realtà, però, la sua visione dell’esistenza è drammaticamente limitata, ancorata a una nevrastenia incontrollata che la fa essere portatrice sana del germe di cui sopra. Il padre è un maschio metro-sessuale che si compiace anche del suo dolore, e che ama spesso ostentare un fisico da quarantenne di grido.

Östlund filma con intelligenza la deflagrazione posticcia e frignona dei suoi protagonisti; nel suo film non c’è però la vocazione assoluta alla distruzione, ma solo alla scomposizione. C’è chi lo ha paragonato ad Haneke: a differenza degli ultimi lavori del regista austriaco, Östlund esorcizza con sguardo distaccato e altezzoso i patemi dei due insopportabili genitori, dirottando gli unici slanci personali nella figura dell’inserviente, che contempla la coppia con graduale disapprovazione, o dei bambini stessi, insofferenti alle idiozie genitoriali e disposti a ricorrere alla vendetta amara ogni volta che possono.

Il gruppo familiare si scontra con la morte, senza “accoglierla” mai, per quasi tre volte. Riesce a scamparvi come fosse al centro di una paradossale beffa, come se continuare a vivere in quella maniera così sciagurata fosse la giusta punizione per un’esistenza tanto inutile. Le figurine di Östlund gridano e scalpitano senza mai toccare la tragedia con mano vera, e avanzano nella neve e nella nebbia impalpabili ed ebeti come fossero i protagonisti di Pingu. Il regista lo sa e li inquadra in ampi totali distaccati, con senso di superiorità e senza scavare mai nel fondo di anime che sul finale provano a ricomporsi e a ritrovare la macchiata unità originaria assecondando le apparenze. Lei rispolvera l’inglese dei cool e l’orgoglio di genitrice cauta quando deve rimproverare un improvvido autista di pullman, umiliandolo davanti al resto dei vacanzieri; lui si mette a capo di una cordata di ricchi maschi lamentosi, esibendo la prole e un maglione ricamato apprezzato da quella tipologia di uomo che guarda con spocchiosa sicumera chi, a differenza sua, non è stato in grado di trovare un lavoro ben remunerato e costruire una famiglia entro i trenta.  Le donne della cordata, in silenzio, stanno tutte dietro.