Come molti film visti quest’anno a Cannes, anche Camoara è un film di fantasmi. Fantasmi che vengono da lontano, dal passato della storia rumena, dalle radici identitarie di una nazione; fantasmi letteralmente sepolti nel giardino di una villa di campagna decadente e rievocati dalle parole dei personaggi dal buio della Storia. Non solo quella comunista, che chissà per quanto tempo ancora ossessionerà i pensieri del popolo rumeno, ma anche quella, più indietro ancora, degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e addirittura quella delle rivolte borghesi di metà XIX secolo. In superficie c’è il presente: la crisi economica che ormai ristagna senza smettere di colpire, le famiglie alle soglie della povertà, i vicini di casa che chiedono prestiti, un senso di normalizzazione che sa di oppressione, di nuova, soffice dittatura. Ma come nelle Arabian Nights di Gomes, anche nel film di Poromboiu la salvezza arriva dalla fiaba, dallo spostamento su un piano affabulatorio di una realtà senza più interesse e redenzione. In Gomes (e a pensarci bene nello stesso Racconto dei racconti di Garrone) tocca alla mitologia, ai resti di racconti orali perduti sovrapporsi al racconto del presente e aiutare il cinema a riformularlo; in Porumboiu, invece, senza identica portata teorica, ma con uno spirito dissacrante irripetibile, tocca piuttosto al modello della caccia al tesoro e della leggenda di Robin Hood.

Dalle viscere della terra, strato dopo strato, per mezzo di uno scavo notturno che si prende giustamente quasi metà film, lavorando sull’attesa, la pesantezza e la fatica, in Camoara gli antenati della Romania di un tempo regalano senza saperlo ai rumeni di oggi la soluzione alla loro povertà. I due improbabili avventurieri protagonisti, un impiegato statale con moglie e figlio e un ex impiegato senza lavoro ma con parenti un tempo nobili, sembrano saltati fuori da una commedia italiana dei tempi d’oro: sono maldestri e buffi, inadeguati e cocciuti. Il loro aiutante, poi, un presunto esperto di metal detector che non sa nemmeno far funzionare una batteria, è la spalla ideale per un numero da avanspettacolo, per una storia da soliti ignoti. Porumboiu fonde in maniera inattesa ed esilarante comicità e attesa, dilatazione dei tempi e senso dell’assurdo, riuscendo laddove falliva un film non troppo diverso nelle intenzioni come La rançon de la gloire di Xavier Beauvois, che a conti fatti parlava anch'esso della necessità della finzione e del potere liberatorio della risata di fronte alla resistenza e alla durezza del reale. A differenza di Beauvois, però, Porumboiu sa perfettamente quello che fa, gioca con le tonalità dissonanti del racconto, resta sospeso fra sogno e risveglio, assurdo e attualità; in superficie sceglie la leggerezza e dilata “in orizzontale” il film, facendo scaturire la risata da situazioni paradossali tirate per le lunghe; in profondità, invece, affossa sotto strati di terra il rimosso della nazione. In questo modo rivitalizza quasi senza darlo a vedere il gusto per la ripetizione e la durata tipico di tanto cinema rumeno di questi ultimi anni (oggi finito inevitabilmente in una fase di stallo) e al tempo stesso ribalta completamente il senso drammatico e narrativo del legame fra un popolo e il suo passato.

La presenza al Certain regard di un altro film rumeno, Un Etaj mas Jos di Radu Muntean, aiuta a capire fino in fondo la porta rivoluzionaria di Camoara: per Muntean, infatti, la ferita del ricordo comunista continua a generare ingiustizia e paura; il suo film non fa che perpetrare e confermare una realtà immobile, lasciando al cinema l’impotenza dello sguardo. Camoara, invece, con il suo gusto per il paradosso e il non-sense, irride la stupidità degli antenati per regalare un riscatto agli stupidi del presente. E lo fa soprattutto grazie al cinema, superando finalmente non solo l’ossessione per il passato, ma pure quella per il presente e per questa crisi così spietata da affrontare con la sola, potentissima arma dell’assurdo.