Quante sono le mamme di Nanni Moretti? C'è la mamma di Ecce Bombo, alle prese con un figlio “ggiovane” e con un marito altrettanto immaturo (se non di più), che finisce per darsi occasionalmente all'alcool per rendere la routine un po' meno penosa (“Sono ubriaca. E con questo?”). Poi c'è quella di Sogni d'oro, martirizzata fino all'aggressione fisica dal figlio cineasta, intento a realizzare un film dall'inequivocabile titolo La mamma di Freud. C'è la madre di Palombella rossa, alla quale il protagonista Michele Apicella si rivolge a più riprese, prima in un disperato monologo su «le merendine, i pomeriggi di maggio, il brodo di pollo quand'ero malato, gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze» destinati a non tornare mai più, per poi prorompere, nel finale, in una richiesta d'aiuto: «Mamma! Mamma! Vienimi a prendere!», estremo tentativo di uscire dalla crisi identitaria di uomo e di militante comunista.

Infine c'è la mamma forse più importante di tutte, quella suicida de La messa è finita. Il figlio Giulio/Moretti, un giovane parroco di periferia che assiste impotente allo sgretolarsi di un mondo che credeva di conoscere così bene, non sa chiederle altro che «Perché l'hai fatto? Non ti perdonerò mai». Non sembra esserci dolore né rassegnazione. C'è rabbia, invece. La rabbia mista alla nostalgia di un passato mitizzato e ormai inevitabilmente perduto (anche qui si parla di partite di calcio, di prati, delle prime albicocche della stagione, «di quelle giornate di primavera che sembrano non finire mai»), ma anche la rabbia egocentrica del bambino lasciato solo per sempre: «Ero felice quando uscivo con te. Mi sentivo al sicuro da piccolo, perché sapevo che c'eri tu […] Perché l'hai fatto? Ora chi ci pensa a me?».

Non ho potuto fare a meno di pensare a don Giulio, e all'altra “maschera” morettiana, Michele Apicella, mentre sullo schermo passavano le immagini di Mia madre. Soprattutto confrontando il personaggio interpretato da Moretti in questo film con i due precedenti. Sollecito, prodigo di buoni consigli, franco nel parlare, sempre disponibile, mai aggressivo o in preda all'ira. Probabilmente il personaggio più “adulto” di Moretti, più ancora dello psicanalista de La stanza del figlio, il cui equilibrio esistenziale e professionale crollava proprio davanti all'inesplicabilità della tragedia. Una sorta di proiezione di un “io ideale” che Moretti sa in fondo di non poter/voler essere, ma al quale attribuisce, forse non del tutto casualmente, il proprio nome di battesimo. Sotto questo aspetto, Moretti non fa che proseguire con ammirevole coerenza l'intento, evidente a partire da Il caimano, di marginalizzare la propria presenza attoriale, delegando, in una sorta di sdoppiamento (schizofrenico?), i propri tic e le proprie manie al protagonista di turno (là Silvio Orlando, qui Margherita Buy). Una marginalizzazione dell'interprete che forse vorrebbe portare a un parallelo rafforzamento della personalità registica. Dico “vorrebbe” perché proprio in Mia madre l'operazione riesce molto male.

Colpa di un Moretti sempre meno all'altezza delle proprie ambizioni, si dirà. A cominciare dalla scelta degli attori: con l'esclusione di Giulia Lazzarini, toccante nei panni del ruolo eponimo, e dello stesso Moretti, che si è cucito addosso il personaggio e lo interpreta con giusta misura, i ruoli principali sono abbastanza desolanti. Liquidando tutto in una battuta, si potrebbe dire che, nel tentativo un po' brechtiano di «vedere l'attore a fianco del personaggio», Moretti abbia finito per mostrare solamente la gigioneria dei propri interpreti: Margherita Buy, chiamata a incarnare una sorta di Nanni al femminile, fagocita in un sol boccone il personaggio, dando vita a uno stravagante ircocervo di morettismi e “buyismi” (si perdoni il discutibile neologismo), rivelandosi, com'era prevedibile, del tutto incapace di reggere da sola il peso del ruolo e dell'intero film; non va meglio con John Turturro, per dirigere il quale Moretti inspiegabilmente si adagia – lui, così nemico dei cliché! – nella macchietta facile-facile dell'attore straniero a Cinecittà, tutto Antonioni, Fellini e Nino Rota.

Interpreti a parte, i difetti di Mia madre andrebbero imputati ai cosceneggiatori Valia Santella (antica protegé del Nanni nazionale) e soprattutto al funesto e sopravvalutatissimo Francesco Piccolo che, guarda caso, era tra gli sceneggiatori del precedente Habemus Papam. Il quale, nonostante alcuni scompensi, riusciva a sopperire alle proprie mancanze grazie a qualche “scatto di reni” registico (il balcone vuoto, l'ingresso dei porporati a teatro) e, soprattutto, grazie all'apporto di Michel Piccoli, in grado di caricarsi l'intero film sulle spalle. Elementi che qui mancano del tutto. Al pari e ancor più del film precedente, Mia madre sconta perciò il fallimento del tentativo di conciliare il “teatrino dell'assurdo” morettiano dei tempi d'oro – fatto di siparietti, di “numeri” autoconclusivi, di gag fulminee tenute insieme dalla figura centripeta del regista-interprete – con una narrazione che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe essere “classica”, rigorosa e fluida.

Evidentemente Mia madre ambisce a essere un'altra opera sull'inadeguatezza: di una regista davanti al proprio film (il “film-da-fare” come luogo reale ma al contempo, per dirla con Moretti, «un po' oltre il realismo»), di un attore nei confronti del proprio ruolo, di un ingegnere alle soglie della pensione con il proprio lavoro, di un'adolescente con i propri doveri di studentessa. E dell'inadeguatezza di ciascuno di fronte alla Fine. Purtroppo tutti questi fili narrativi rimangono sostanzialmente slegati, e finiscono semplicemente per giustapporsi gli uni agli altri secondo una logica dell'accumulo, ravvivata (si fa per dire) da occasionali incursioni oniriche di vetusta matrice buñueliana, già sperimentati in Sogni d'oro.

Quello che resta è un film che, nel migliore dei casi, rimane estraneo allo spettatore. Tutto è detto e spiegato, ma non si va mai davvero in profondità, né riguardo al tema dell'inadeguatezza (non bastano i monologhi interiori della Buy, non basta la scena, davvero anodina, di Moretti che rassegna le dimissioni dal proprio impiego), né tantomeno riguardo a quello che dovrebbe essere il nucleo problematico del film: l'incontro con la morte di un genitore, la necessità di diventare davvero adulti, di pensare “al domani”, come viene detto nel didascalico campo/controcampo “immaginario” che chiude il film.

In tutto questo parlare di inadeguatezza, alla fine l'unico davvero inadeguato, una volta tanto, è il Moretti regista.

MIA MADRE, regia di Nanni Moretti, Italia/Francia/Germania, 2015, 106'.