Alcune persone non nascono una volta sola. Arianna è una di quelle, e la sua voce fuori campo lo annuncia fin dal principio: «Sono nata due volte. Anzi tre».

Già nel momento in cui la ragazza appena maggiorenne e i suoi genitori tornano, dopo sedici anni, nel vecchio casolare di famiglia – larghe pareti color vinaccia tra valli umide di brina, boschi fitti e sorgenti nascoste – l'aria immobile sembra tenere i personaggi in apnea, come in attesa. Lo sguardo di Carlo Lavagna, trentasettenne regista al suo esordio[1], claudica volutamente appresso ai movimenti dei tre personaggi che si aggirano tra gli ampi spazi della casa, incerti: ciascuno sembra cercare qualcosa che non trova. Arianna, soprattutto, è in preda a una soffocata insofferenza: il suo corpo muto (seno piccolo, assenza di mestruazioni, nessun desiderio sessuale) la fa sentire aliena a se stessa, nonostante le rassicurazioni del padre, medico solerte e premuroso.

Il racconto si muove a piccoli passi, alternando campi lunghi e piani stretti su dettagli, visi, movimenti; accostando quadro a quadro come scene autonome, spezzate qua e là da salti temporali e veloci scambi di battute. Via via, il ritmo della narrazione muta al mutare delle vite che si incrociano: il disegno complessivo assume i tratti di un mistery interiore, in cui Arianna è l'investigatrice di se stessa e di un passato remoto e rimosso, eppure ancora incombente su quei luoghi silenziosi e sui corpi che li occupano. Quando i genitori escono momentaneamente di scena, la ragazza comincia a percorrere a ritroso il filo della sua vita, alla ricerca del tassello mancante che dia un senso a quel ritorno: osserva i comportamenti dei suoi coetanei, ne sfiora le forme, in una progressiva scoperta di emozioni primitive. Le frasi interrotte, gli sguardi inquieti, le lettere nascoste vengono man mano messe in ordine e quel mosaico frammentato si ricompone in un disegno di verità negate e in parte riconquistate.

Il promettente talento di Lavagna si manifesta fin dalle prime sequenze, in quel procedere visivamente e narrativamente discontinuo, nella capacità di catturare lo spirito dei luoghi, il dubbio e l'imbarazzo negli sguardi, l'apprensione e l'attesa, il sentore di un non-detto. E si conferma ancor più nella capacità di costruire con gentilezza la sofferta vicenda di svelamento e accettazione di una persona intersessuale («forse se vi dico ermafrodita vi suona più familiare»), senza alcun cedimento al macchiettismo, senza prurigini né buonismo. Ma è soprattutto la sorprendente prova attoriale della giovane protagonista Ondina Quadri a riempire di vita pulsante quest'opera: l'azzurro cristallino dei suoi occhi e la struggente naturalezza nella risata e nel pianto, nella nudità, nella curiosità, nella rabbia, perforano lo schermo producendo un effetto deflagrante.

In una splendida scena, Arianna fugge all’imbrunire da una festa nel giardino del casolare e, novella Alice, si perde con il suo vestitino bianco nel verde cupo del bosco che la circonda, inquietante e protettivo: nel cuore di questo smarrimento, la voce incerta di un cappellaio matto – lo zio balbuziente e malvoluto dalla famiglia – svela un ultimo, determinante indizio. È così che Arianna trova il coraggio di ricomporre il quadro e può finalmente osservarsi allo specchio e riconoscersi, capire il suo corpo, vedersi persona completa e complessa, donna, fanciullo, speciale: nata tre volte, farfalla e bruco insieme, finalmente pronta a volare.


[1] Lavagna aveva già realizzato, però, un brevissimo e geniale cortometraggio per la promozione del fundraising necessario alla produzione di questo suo lungometraggio, ancora online all'indirizzo: http://www.goodshortfilms.it/exclusive/arianna