Re Lear è il capolavoro di Shakespeare e, ripulito dalle sue incrostazioni classiche o teatrali, ha la forza, la semplicità e l'eterna giovinezza delle grandi storie. E quel che c'è di semplice nella storia di Re Lear – quel che c'è di davvero importante – non è il fatto che l'eroe tragico sia un vecchio re, ma che sia un uomo vecchio. Proprio il vecchio, amabile, egocentrico tiranno domestico che ancor oggi tiene in pugno tante famiglie. Sappiamo bene di essere stati gloriosamente liberati dal gusto del proibito, e che ormai non c'è più nulla di davvero osceno. Con un'eccezione: la morte.

«Morte» è la nostra unica parola oscena. E Re Lear parla della morte; dell'avvicinarsi della morte; del potere e della perdita di potere; e parla anche d'amore. Nella nostra società consumistica siamo invitati a scordare che moriremo, e che la vecchiaia può venire rimandata dalla crema di bellezza giusta. Quando la vecchiaia finalmente arriva, siamo invitati ad attenderci un lungo e dolce tramonto.

«La vecchiaia», disse Charles de Gaulle, «La vecchiaia è un naufragio», e sapeva di che parlava. I vecchi sono ancor più preoccupati di sé dei giovani. A chi dipende da loro i vecchi chiedono amore, più amore di quel che possono ricevere, più amore di quel che sanno restituire. Quando la vecchiaia tenta, o costringe un uomo a rinunciare alla fonte stessa del suo ascendente sui giovani, il suo potere, sono loro, i giovani, che diventano i tiranni, e lui, un tempo onnipotente, un pensionato.

Tra tutti i dolori dei vecchi, la perdita di potere è la più difficile da sopportare. Il vecchio, se è un uomo forte – il capo della tribù, della città, della chiesa, dello stato, del partito politico o della corporazione – chiede amore come un tiranno chiede omaggio; e, privato del potere, è costretto a mendicarlo, come Lear. Quando, per una rinuncia volontaria o forzata, un uomo così viene improvvisamente privato della tirannide che lo faceva vivere, non può che avviarsi esitante alla sua tomba, lottando per ottenere da coloro che furono soggetti al suo capriccio una piccola parte della pietà soffocante che ora scopre di provare per se stesso. È impotente, sbattuto di qua e di là come il batacchio di una campana, vibrando d'un muto suono. È diventato un reietto, bandito nell'isola deserta della sua solitudine, esiliato anche da se stesso. «Chi?», grida il vecchio Re Lear, «Chi può dirmi chi sono io?». Non ha rinunciato soltanto alla sua corona, ha rinunciato a se stesso.

Be', dovete scusarmi se vi ho raccontato di che parlerà il nostro film. Raccontarvi come sarà non è altrettanto facile. Non posso descrivere sul serio qualcosa che per il momento esiste soltanto nella mia mente. Anche quando un film è già sullo schermo, le parole non ci portano molto lontano. Quello che invece posso dirvi, è quel che non sarà questo film. Non sarà, in nessun senso della parola, «un film in costume». Questo non significa che i personaggi indosseranno i blue-jeans; vuol dire che una storia così moderna e diretta, così universale, semplice, umana, non verrà appesantita dalla zavorra impolverata della tradizione teatrale. Sarà altrettanto libera dalle varie forme di retorica cinematografica – la mia come quella altrui – che si sono già accumulate nella storia delle trasposizioni cinematografiche di Shakespeare. Quel che vi darò, insomma, è qualcosa di nuovo: Shakespeare rivolto direttamente e unicamente alla sensibilità del nostro tempo, quello in cui viviamo.

La macchina da presa parlerà un linguaggio intimo, molto intimo, piuttosto che magniloquente. Il tono sarà insieme epico nella sua semplicità, e quasi ferocemente concreto e terra terra. In una parola, non solo un nuovo tipo di Shakespeare, ma un nuovo tipo di film. Ho intenzione di mantenere la promessa e c'è qualche motivo d'essere ottimisti se ho investito tanto tempo, tanta energia e tanto amore nella preparazione di questo progetto. Quel che più importa, il materiale dal quale verrà realizzato il progetto è semplicemente il più grande dramma che sia mai stato scritto.

Vi prego di scusare la mia scandalosa immodestia; vi ringrazio di avermi gentilmente concesso, e così a lungo, la vostra attenzione. Rimango, come sempre, il vostro obbediente servitore.

(Dal videotape per un Re Lear mai realizzato, 1983. Riprodotto in Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, Milano, Baldini e Castoldi, 1996. Traduzione di Roberto Buffagni. Disponibile online su wellesnet.com)