Ritorno alla vita segna un ritorno, quello al cinema di finzione del regista tedesco, dopo la duplice esperienza documentaristica di Pina e Il sale della Terra. Il film, costruito a partire da una sceneggiatura originale di Bjorn Olaf Johannessen, si concentra sul dramma del giovane scrittore Tomas (interpretato da James Franco) incidentalmente responsabile della morte di un bambino, evento traumatico che tenterà di elaborare e superare nel corso degli anni successivi all'incidente, fino al cruciale incontro con Christopher, il fratello della vittima  rimasto illeso.

A partire dalla prima inquadratura in primissimo piano del volto di Tomas, la macchina da presa denuncia la propria volontà di accedere all'interiorità del protagonista, assecondata lungo tutto il film da un uso intimista del 3D, già sperimentato nel documentario su Pina Bausch. Ma l'effetto di prossimità al protagonista, dapprima straniante e poi suggestivo, è dato principalmente dal reiterato ricorso a quel paradosso della visione creato dalla combinazione di due movimenti opposti – panoramica all'indietro e zoom in avanti – inaugurata da Hitchcock in La donna che visse due volte (1958) qui rispolverato da Wenders con l'intento di isolare la figura dall'ambiente circostante generando un effetto volutamente anti-naturalistico. Nella ricerca formale e nell'assunzione di un punto di vista permeato dalla soggettività del protagonista, sembra aver giocato un ruolo determinante l'incontro epifanico di Wenders con l'opera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, la cui forza, a detta del cineasta tedesco, risiederebbe innanzitutto nella sincera e autentica dedizione dell'autore agli esseri umani. In questo senso, in Ritorno alla vita lo sguardo di Wenders ricerca, attraverso le immagini in movimento, quella stessa intimità con il soggetto che il fotografo rincorre nella fissità di un unico scatto.

Spinto da un simile moto empatico, il regista accorda senza timore l'andamento della narrazione al lento procedere della quotidianità dello scrittore, sottomessa ai capricci di un'ispirazione che sembra trarre nuova linfa dall'evento traumatico. Per contrasto, la netta accelerazione che investe, sul piano del montaggio, la breve sequenza in cui il protagonista si abbandona ai più tipici gesti di autolesionismo nella solitudine della stanza di un motel – nel periodo appena successivo all'incidente – rafforza la saldatura che lungo tutto il film tiene legati tra loro la struttura interna del racconto filmico e il travaglio interiore del personaggio, sul cui contenuto si interrogano tanto gli altri personaggi, quanto lo spettatore.

Tuttavia, è con ancora meno timore che Wenders sceglie di relegare nel fuori campo sonoro il fatidico dialogo tra Tomas e Christopher, evento risolutivo verso cui tende l'intero racconto, estesosi negli anni per mezzo dell'adozione di continue ellissi temporali. L'incontro è reso inaccessibile allo spettatore attraverso l'espediente tecnico del time lapse che cela lo svolgimento dell'azione, pur suggerendone la notevole durata. L'improvviso indietreggiare della macchina da presa in corrispondenza dell'evento decisivo scoraggia, tutt'a un tratto, la possibilità di una lettura morale del racconto. Se con l'avanzare dei minuti si era scoperta sullo schermo una sorta di simbiosi tra soggetto filmato e oggetto filmante – tra la fisicità di Tomas e la plasticità dei movimenti della macchina da presa – una volta appurata l'impenetrabilità del percorso morale che il protagonista ha condotto interiormente, tale efficienza della rappresentazione finisce per opprimere lo spettatore, il quale, impotente, solo ciecamente può partecipare al turbinio di emozioni a cui allude con insistenza la regia senza mai interpellarlo attivamente; quali reazioni abbia suscitato il  trauma sulla coscienza dell'individuo e sul lavoro quotidiano dello scrittore, di sua natura sospeso tra memoria e immaginazione, rimane un mistero; ciò che viene consegnato alla sala è, in definitiva, solo l'espressione esteriore di un'emotività, la quale, nonostante l'indiscutibile tragicità dell'evento che l'ha generata, non basta ad attivare quell'immedesimazione tanto finemente ricercata attraverso la forma. Dall'abbraccio finale, enfatizzato dalla partitura musicale di Alexander Desplat, che sin dall'apparizione del nome del regista nei titoli di testa è tutta tesa a sedurre le corde emotive dell'ascoltatore, i due antagonisti riemergono definitivamente pacificati; ma di fronte a una redenzione di cui si ignora il calvario interiore che l'ha resa possibile, non si può che rimanere tiepidi.