Il cinema di Ben Rivers si è sempre mosso sapientemente sulla soglia incerta tra finzione e documentario, nell’intervallo che sta tra intuizione e costruzione, contatto diretto e contemplazione distante, immersione nel momento e distillazione di un mondo. Un’ambiguità soffusa, che accompagnava i vagabondaggi di Jake in Two Years at Sea o il pellegrinaggio nordico di Robert AA Lowe in A Spell to Ward Off the Darkness (firmato insieme a Ben Russell). Tanto studiata quanto aleatoria, come le imperfezioni di sviluppo della sua pellicola, al terzo lungometraggio questa nebulosa sembra sottoposta a un processo di sublimazione, cristallizzandosi in due parti distinte e speculari: una struttura scissa, che separa documento e messinscena solo per ribadirne l’inevitabile contaminazione, per replicare e diffondere quel principio d’incertezza.

Fin dal suo lungo titolo, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers annuncia discordia, lacerazione: un cosmo che sussulta e si decompone, riflesso in uno sguardo in dissidio, che non si fonde in una visione, ma sorge entro una frattura, ricomposta e moltiplicata dall’interminabile rispecchiamento in cui immagine e realtà s’incontrano e si sfuggono, si distorcono e si divorano. L’immagine apocalittica proviene da Paul Bowles, un oracolo minaccioso captato dallo scrittore tra la folla di Marrakech e poi trascritto nel flusso lisergico di uno dei cosiddetti “racconti del kif”, He of the Assembly. Ed è proprio in Marocco, e sulle orme di un altro racconto di Bowles, A Distant Episode, che Rivers ha stabilito la base del suo articolato progetto, che comprende anche un cortometraggio, un libro di appunti visivi, un’installazione nei vecchi studi della BBC. Accumulando spunti, riferimenti, incontri, il progetto nel complesso si presenta come la prima riflessione diretta sul fare cinema da parte dell’autore. In questo episodio centrale, Rivers predispone la collisione tra il making-of girato sul set di un altro regista e la storia scritta da un altro autore, restando ad osservare il prodotto della simbiosi, tra l’immagine documentaria che parassita la situazione del set e la finzione che risucchia quella prima realtà in un incubo allucinato.

Una delle fonti d’ispirazione del progetto è Cuadecuc, vampir (1971), realizzato da Pere Portabella strappando immagini al set di un film di vampiri (Il conte Dracula di Jesus Franco). In questo oscuro mutante cinematografico, Rivers trova il prototipo di una profanazione dei luoghi della finzione, che demistifica e al tempo stesso trasfigura la realtà del set, rivelando la convivenza scandalosa di ciò che ogni inquadratura, solitamente, è chiamata a separare. Un bootleg sovversivo, un found footage istantaneo che sfrutta il cinema nel suo stesso farsi e lo reimmagina, mastica il suo materiale e lo risputa nella pasta granulosa del suo bianco e nero, come uno spettro che rammenta al cinema stesso il suo debito insoluto con la realtà.

In questo caso il set è quello dell’ultimo film di Oliver Laxe, Las Mimosas: più che un set una carovana di locali in costume e muli sovraccarichi, sospinta da una follia herzogiana tra distese desertiche e gole scoscese, arrampicata sulle alture dell’Atlante marocchino ed esposta a tutti gli accidenti che incombono su una piccola produzione in una regione impervia. Muovendosi tangente alle sue vicissitudini, Rivers osserva il faticoso prodursi di un film, la materia recalcitrante da cui sorge, in schizzi rapidi e sospesi che registrano impasse e tempi morti, attese e imprevisti, tra interpretazioni che sfuggono alle direttive e performance improvvisate ai margini del set. Un vecchio barbuto inscena con consumata nonchalance giochi di prestigio per la sua cinepresa: sigarette che diventano banconote, un ago premuto contro la pelle che non lascia traccia di sangue. “Questa è la realtà”, sentenzia sornione; uno stacco e lo ritroviamo nel suo costume, prestato a una ben più articolata contraffazione. Anche Rivers gioca a confondere le carte, lasciando avvolgere il film nelle spire di un illusionismo documentario, in cui la realtà è permeata dalla messinscena mentre questa non sfugge mai agli attriti e all’inerzia del mondo che vorrebbe plasmare.

Con puntuali ritagli, Rivers estrae da questa precaria situazione il proprio collage, da cui trapela il fascino e la miseria di un’impresa sempre in bilico tra il rischio di violare la realtà in cui si muove e quello di esserne sopraffatta. La tensione palpabile sembra a volte sfruttata per disseminare dettagli, che sembrano una macabra parodia di quanto in seguito, nella finzione, accadrà davvero: un fantoccio di pezza avvolto in un sudario, con bottiglie di plastica a fargli da corredo, ovvero da galleggianti, per quando sarà abbandonato, poco dopo, alla corrente di un fiume; altri corpi stesi a terra, un uomo manipolato come una salma, un altro cosparso di sangue finto; un mulo che ondeggia ossessivamente, inceppato nella sua routine gestuale, un altro che si paralizza, inutilmente strattonato. Istanti enigmatici, isolati e oscuramente connessi, che sfuggono alla rassicurante punteggiatura dei ciak e degli stop, confinati in una terra di nessuno da cui serpeggia un crescente senso di smarrimento. Lo stesso che a un certo punto sembra spingere Laxe lontano dal suo set, per scivolare impercettibilmente in quello di Rivers, dopo una lunga deriva in fuoristrada, accompagnata dalla monotonia del paesaggio e dal pulsare monocorde del drone metal. Poi la sosta in un hotel, l’incomprensibile lusinga di un demone meridiano incarnato in un vecchio incappucciato, ed ecco che Laxe è ormai calato nei panni del protagonista di A Distant Episode, panni che si rivelano presto assai scomodi.

La finzione irrompe con una virata truculenta e assume contemporaneamente i tratti quintessenziali dell’apologo, che si condensa nella cruda metafora del racconto di Bowles, in cui un Professore, spinto in una terra sconosciuta dal suo interesse per le lingue, finisce per perdere la propria, letteralmente. Tramortito, mutilato, trasportato a peso morto e poi infilato in un grottesco costume addobbato con coperchi di latta, il regista diventa testimone radicale, irrecuperabile, di una perdita di linguaggio: non solo di quello verbale, perché, seguendo la logica di adattamento applicata da Rivers su Bowles (da linguista a regista), è anche, o soprattutto, la sua facoltà professionale, quella di produrre immagini della realtà, a venir meno. Sfigurato, occultato dal costume, egli stesso diventa semmai un’immagine: quella di un essere chimerico e mediano, che ha fatto un passo di troppo, oltre la linea di fascinazione dell’alterità, e ne è rimasto inghiottito. Emblema di chi non appartiene più né al mondo da cui proviene né a quello in cui si ritrova, la sua figura diventa un monito, che getta una luce cupa su quanto precede.

Laxe, che abbiamo visto intento a mantenere il controllo sul proprio set, finisce per perderlo anche su se stesso: ormai personaggio condotto su un tracciato prescritto, diventa semplicemente il regista, incarnazione del Professore del racconto e, possiamo supporre, alter ego dello stesso Rivers. Ma proprio in quanto personaggio egli è in balia dei suoi persecutori, che spuntano dal nulla, come un’oscura fatalità, esecutori di una vendetta che sembra sorgere dalla terra stessa, contro chi pretendeva di ridurla a location, terreno di conquista per il proprio bottino di immagini. Tuttavia, nonostante la brutalità, l’aggressione assume piuttosto i tratti di una operazione, parola che lampeggia nella mente sotto choc del linguista di Bowles: non semplice annichilimento, ma gesto che produce una trasformazione, pur passando da tagli e asportazioni.

“Abbiamo fatto proprio un bel lavoro”, si dicono compiaciuti gli aguzzini di fronte al loro nuovo feticcio, battezzato il Re di Lattine, con quel misto di disprezzo e riverenza riservato alle vittime sacrificali. C’è qualcosa di gratuito, quasi una perversa volontà estetica nel loro piano criminale, che non sembra diretto all’interesse economico del rapimento né all’umiliazione dell’invasore straniero. Ricoperto di latte arrugginite, detriti di merci così rappresentative del colonialismo occidentale, il regista appare certo degradato a merce lui stesso, come un simbolico trofeo. Ma i suoi torturatori dimostrano intenzioni più complesse, il loro sadismo entra in risonanza con l’identità che gli è appena stata negata: quello che pretendono da lui è una performance, vogliono trasformarlo in un interprete, insegnargli a danzare ai loro ritmi. Così le ferite si rimarginano e il costume diventa una seconda pelle: la storia in cui Laxe è ormai intrappolato prende l’andatura di un percorso iniziatico, una peregrinazione ipnotica in cui la banda criminale diventa una sorta di compagnia viaggiante, che porta in giro la propria inquietante attrazione: una marionetta docile e sferragliante, addestrata ad eseguire le mosse impacciate di una danza per la delizia dei conterranei.

Se l’ultimo corto di Rivers, Things (2014), era una soggettiva domestica, un autoritratto straniante composto da oggetti familiari, qui l’autore sembra cercare il proprio riflesso nella totale alterità, rivolgendo a se stesso e alle proprie intenzioni, un’interrogazione chirurgica, apparentemente spietata. Certo, Rivers non è il modello del regista neo-coloniale e nemmeno potrebbe esserlo Oliver Laxe, che da tempo ha base in Marocco e già nel suo primo film, Todos vós sodes capitáns (2010) rifletteva sulle dinamiche di sguardo e di potere coinvolte nel suo workshop di cinema con dei ragazzi di Tangeri. Ma proprio per questo, perché entrambi consapevoli della loro problematica posizione, la mettono in gioco in questa disamina, che affronta la questione dell’approccio etnografico per allargarla, per rilevare il vampirismo alla radice del cinema in quanto tale. D’altra parte, quando in conferenza stampa all’anteprima di Locarno, descrive il Re di Lattine come “una creatura senza un ego, senza intenzione, senza arroganza, senza sapere persino”, Rivers fornisce una contro-immagine, quasi un antidoto ai gravami di coscienza, in cui il rischio di idealizzazione è molto alto. Una maschera, si sa, trasforma e conserva, espone e ripara al tempo stesso, e a rischiare di tagliarsi con le latte arrugginite sono più gli aguzzini che il loro prigioniero. La degradazione può sempre celare una promessa catartica, la romantica tensione ad annullarsi di fronte all’Altro, pur conservando intatto il privilegio di questa dissipazione.

Prendendo a riferimento un autore come Bowles, Rivers sembra accettare consapevolmente il rischio orientalista di idealizzare l’Altro, cercando di non incastrarsi nelle strettoie autoriflessive, ma spingendosi in cerca di un fondo comune, per quanto inattingibile, un territorio dove culture e linguaggi si sgretolano ed emerge l’urlo di un essere senza più categorie, indice di qualcosa che non appartiene più all’umano, ma a cui questo appartiene. Così un film che prende le mosse da un’osservazione del cinema nel suo farsi ha come punto di fuga il disfarsi di sé e del cinema. Sprofondando lo sguardo in questo specchio oscuro, il regista non cerca di confermare la propria immagine, quanto di preservarne l’ambiguità, la stessa che cogliamo nella lunga inquadratura finale, dove il Re di lattine in fuga verso l’orizzonte sembra a tratti fermarsi sul posto e trasformare quella corsa disperata in una danza.