Abbiamo avuto la fortuna di intercettare più volte Aleksandr Sokurov e forse per questo – o forse per l’amore profondo che nutriamo nei confronti del suo cinema – la conversazione che segue può apparire come il prosieguo di un discorso che ha origine lontano nel tempo, dal fluire stesso della sua opera, capace di assumere forme sempre diverse e di rinnovare di film in film una riflessione sullo stato dell’arte, sul ruolo dell’uomo e sul senso della Storia. Sulla terrazza dell’Hotel Excelsior, il regista russo – con al fianco la fedele e impeccabile Aliona Shumakova – ci parla della genesi di Francofonia, l’opera sulla quale ci siamo più interrogati e confrontati durante Venezia 72.

Sokurov: Cosa sarebbe stata Parigi senza il Louvre? O la Russia senza L’Hermitage… Questi punti di riferimento nazionali, sono la parte più stabile del mondo della cultura. Io, purtroppo, ho scoperto l’Hermitage molto tardi, avevo ventisette anni quando ci sono entrato per la prima volta. Forse per questo ritenevo i musei dei luoghi inaccessibili, dove non avrei mai potuto girare un film. E invece è successo con Arca russa e ora con Francofonia. Quando sono stato chiamato per girare un film al Louvre l’ho considerato come un ritorno al sogno di fare un ciclo d’opere sull’Hermitage, il Louvre, il Prado e il British Museum. Alla base c’era un’idea: immaginiamo un’arca in mezzo all’oceano con tante persone e tante opere d’arte a bordo. Ma le travi della nave non riescono più a reggerne il peso e l’arca rischia di affondare. Cosa salvare? Le persone? O quei muti e insostituibili testimoni del passato? Francofonia è un requiem per quello che è perito, un inno al coraggio e allo spirito che unisce l’umanità.

Filmidee: Arca russa prende il via laddove termina Elegia del viaggio, e ci verrebbe da dire che l’inizio di Francofonia rimandi al finale di Arca russa: se nel film sull’Hermitage, il viaggiatore nel tempo concludeva il suo percorso di fronte alla distesa d’acqua che circonda il Museo, qui è lo stesso Sokurov a entrare in contatto con un uomo, capitano di un cargo, che sfida una tempesta per portare in salvo un patrimonio artistico sfidando. Come è nata l’idea di inserire questa conversazione di uomo perso nei flutti marini, che sono anche i flutti della rete di internet?

S.: Inizio rispondendo alla seconda parte della domanda: nel film il mio personaggio si mette in contatto con il capitano della nave via Skype. Ci tenevo a usare questa nuova forma di comunicazione: credo sia uno degli strumenti migliori della tecnologia contemporanea, perché sostiene la comunicazione e non la distrugge. È un modo per coltivare i rapporti con persone lontane, in maniera umana, a differenza di altri mezzi come i cellulari che trovo disumani. Per stare bene, l’uomo ha bisogno dell’altro uomo, e di nient’altro, in fondo: conversando con l’altro, la cosa più importante è poterlo vedere in volto, i suoi occhi, le sue espressioni, il suo calore o la sua freddezza. Per questo ho voluto introdurre Skype: un mezzo che mi piace, al contrario di altre diavolerie.

L’oceano, invece, è una forza della natura che, come dice Chekhov, non ha né senso né coscienza, e quindi non può avere una consapevolezza di cosa stia affondando nei suoi flutti: può essere una pietra, un animale, un poveraccio qualunque o un grande intellettuale – per l’oceano non c’è alcuna differenza. L’uomo conosce l’esistenza delle forze della natura e può tenerle in considerazione, mentre la natura non tiene in considerazione l’uomo: è uno dei paradossi della vita umana. Noi ci sforziamo di comprendere la forza della natura, ma lei non si preoccupa di noi, non ha coscienza di noi, non si rende conto della nostra esistenza… In questo senso, la società umana rispecchia la forza della natura, ecco perché abbiamo diritto di porci tale domanda: la Storia ha un senso, ma può avere una coscienza? Perché la Storia è costituita da quello che fanno le persone, i movimenti, i popoli, ma dov’è la coscienza? Il mio personaggio, nel film, si interroga al riguardo: perché cerchiamo di farci comprendere dalla natura, che non ha né senso né coscienza? Perché mandiamo per mare navi cariche dei nostri beni più preziosi, le opere d’arte? Per l’oceano noi siamo solo “corpo negato”: cadaveri di uomini annegati che fluttuano sulle onde prima di trasformarsi in cibo per i pesci.

F: Dal film emerge con forza la presenza della Russia nella Storia europea, anche laddove non è così scontata. Viene da domandarsi che rilievo abbia tale presenza nella Storia dell’Arte, non necessariamente, o non solo, quella figurativa ma anche in relazione alla letteratura…

S.: Dovreste dirmelo voi… La Russia è una sorella minore, che si è data molto da fare… È una buona allieva della cultura occidentale: ha scrittori, compositori, anche artisti eccellenti, quanto agli architetti, per quanto ci abbiano provato, ancora non ci siamo… M a la Russia ha mandato il primo uomo nello spazio. In qualche modo c’è riuscita! Nella qualità della vita si legge la penetrazione dell’arte nella società, ma non solo: l’arte russa ha elaborato la tradizione europea in maniera quasi esagerata, dando luogo all’avanguardia. Con questo termine non indico ciò che comunemente si intende per avanguardia: per me lo sono Tolstoj e Dostoevskij e, infatti, i loro romanzi sono tuttora attualissimi e lontani dal sembrare codificati. La loro novità riguarda principalmente il contenuto, più ancora che la forma. In questo possiamo paragonarli a Prokofiev.

F.: Ora vorremmo parlare della forma che ha assunto questo film, molto particolare, all’interno della sua filmografia. Francofonia ricorre a diversi linguaggi, è un’opera eclettica che mette insieme ricostruzione, documentario, repertori, interventi grafici… Si parla di “nodo del tempo” e ci sembra che l’abbia estrinsecato attraverso un affioramento: nel film possiamo leggere i diversi strati del tempo come fossero fatti di materiali differenti. Come si è composta questa stratificazione?

S.: Ho pensato che dovesse essere come un mosaico, una forma tradizionale dell’arte figurativa. Francofonia è composto di diversi livelli, non strati che derivano uno dall’altro ma livelli emotivi profondamente distinti. Perciò ho usato la tecnica del mosaico in cui si accostano tasselli anche molto diversi tra loro, apparentemente stridenti ma che, nella composizione finale, trovano la loro armonia. Era da anni che volevo servirmi di questa tecnica, così semplice all’apparenza ma in realtà molto complessa. È proprio della natura stessa del cinema ingrandire le immagini mentre il mosaico tende a rimpicciolirle per offrire una visione d’insieme.

F.: A questo proposito risulta evidente l’attenzione alla costruzione del film e al suo montaggio: Francofonia, pur essendo in continuità con Arca russa, è anche il suo opposto.

S.: Forse non c’entra granché con Arca russa. O forse sì… Con i film costruisco dei cerchi attorno al mio pensiero – credo accada a tutti, non solo a me. Passiamo la vita a circumnavigare il nostro pensiero, a poco a poco forse ci avviciniamo a quello che vogliamo veramente dire, ma se lo dicessimo pienamente forse non ci rimarrebbe che morire. Ogni autore che coglie il nocciolo del problema viene eliminato, perché le persone troppo sagge sono pericolose nella vita di tutti i giorni.

F.: Nel suo cinema c’è una grande attenzione al volto, sottolineata ancora una volta nell’attenzione che presta ai ritratti conservati al Louvre, ma Francofonia finisce in maniera sorprendente con il non-figurativo: tre schermi vuoti che cambiano progressivamente colore. Come è arrivato a questo finale?

A. S.: (sorridendo) Secondo voi perché ho scelto di finire il film in questa maniera? Cosa avete letto nella mia scelta?

F.: La nostra interpretazione ci rimanda ancora una volta al finale di Arca russa, quando l’occhio del viaggiatore incontra il mare e il cielo nebbioso che circondano l’Hermitage. Siamo nuovamente posti di fronte a una sfida simile ma che ci spinge più in là: abbiamo pensato potesse anche avere a che fare con l’immaterialità dell’arte oggi (le sfide della conservazione dell’arte contemporanea, la smaterializzazione del cinema) e con la virtualizzazione dei rapporti, delle relazioni umane.

S.: La vostra è un’interpretazione molto filosofica e appropriata, ma forse per me è più semplice e riguarda il suono.

F.: Il suono è una componente rilevante del film, nel finto archivio che racconta l’Occupazione del Louvre compare anche la banda sonora…

A. S.: Il suono è l’anima di questo film. Le immagini rappresentano soltanto le mani o le gambe: sappiamo che le mani sono più importanti della testa perché ci permettono di fare le cose, mentre l’anima è al di sopra di tutto. Un uomo può non avere arti, ma non può non avere l’anima. È un concetto universale che investe tutto. I nostri legami fondamentali con il mondo e con il divino sono quelli con la vista e con l’orecchio: se provate a chiudere gli occhi, in questo momento, sentite il rumore del mare e il resto potete immaginarlo a partire dal suono. Oppure sentite una musica e vi assorbe, non avete più bisogno dell’immagine, sta a voi crearla, come succede nel finale del film.

F.: Un finale che si riallaccia anche all’inizio del film, che si apre con la voce dell’autore, la sua, su schermo nero. Ci ha fatto venire in mente le parole di Carmelo Bene: “l’anima di una persona sta nella sua voce”.

A. S.: Sì, nell’intonazione. Ogni persona ha la sua, ma procedendo in questo discorso possiamo dire che ognuno di noi appartiene a un popolo, ognuno con la propria intonazione e melodia. C’è qualcosa di divino in questo.

[L’intervista qui riprodotta è pubblicata anche sulle pagine di Lo Straniero]