Si sa che confrontare un film con il libro da cui è tratto è un’esercizio che lascia il tempo che trova e che soprattutto si addice poco alla critica cinematografica. Fingiamo allora di fare un confronto “intermediale” tra due testi (uno filmico: The Diary of a Teenage Girl di Marielle Heller, l’altro l’autobiografia – metà romanzo metà graphic novel – di Phoebe Gloeckner) sullo stesso tema: l’abuso sessuale. Del resto, è di questo che si tratta: due opere distinte e irrelate. Nel momento in cui Heller ha preso in mano il progetto, il film è diventato il suo film e l’utilizzo di media differenti ha una sua parte come ha osservato la stessa Gloeckner in un’intervista: “I don t think the movie could possibly be as dark and, well, explicit, as the book. It’s a film, so it has to get an R Rating”.

La trama, ovviamente, è la stessa: nella San Francisco del 1976, la quindicenne Minnie intreccia una relazione sessuale con Monroe, il compagno di sua madre. Eppure sia i toni che i fatti narrati sono agli antipodi nei due testi. Partiamo dalle due protagoniste. La Minnie di Gloeckner è un personaggio forte, affascinante, resiliente ma anche profondamente danneggiato e disperato. Poche opere, credo, riescono bene come quelle di Gloeckner a rendere testimonianza della cupio dissolvi che tante persone, per un motivo o per l’altro, incontrano e perseguono nella propria vita. Come dimostra Mary the Minor, uno dei primi fumetti pubblicati da Gloeckner quando era ancora adolescente, in cui si autodefinisce “una ragazza confusa e disadattata”, l’autoconsapevolezza di Gloeckner non dipende solo da una successiva e retroattiva elaborazione del passato, ma è sempre stata presente. Questa commistione di incomprensione, solitudine, stigma sociale, senso di colpa e attrazione per l’autodissoluzione manca completamente nel film. La Minnie di Heller, impersonata dall’acclamatissima Bel Powley, invece, è paradossale: da un lato è una donna pienamente adulta, autodeterminata, chiaramente mossa dal proprio desiderio indipendente, dall’altro una bambina, ed è questa sua innocenza, la sua “fantasia”, che la protegge dalla percezione del trauma, a renderla un personaggio digeribile al pubblico, pronto perciò a scusarne l’altrimenti minacciosa voracità e autodeterminazione sessuale.

La Minnie di Gloeckner è una bambina travestita da donna, per proteggersi. Quella di Heller una donna travestita da bambina, per compiacere il pubblico. Il risultato sono un fumetto profondamente disturbante, e un film “piacevole”, carino, inoffensivo.

È a causa di questo tentativo di accontentare e non spaventare il pubblico che Heller fa gli errori più grossi e soprattutto solleva due domande. La prima riguarda un buco narrativo. Il film è stato acclamato per la rappresentazione gioiosa che offre della sessualità adolescente. Ma da dove viene l’ipersessualizzazione di Minnie? È sempre liberatorio ragionare in termini di agency? Vita da bambina, il fumetto di Gloeckner precedente a Diary e se possibile ancora più crudo, indaga con acuta profondità il contesto in cui Minnie cresce, circondata da adulti problematici (in primis la madre alcolizzata) che la portano a confondere il sesso con l’unico modo possibile per ricevere affetto e attenzione. Il desiderio sessuale di Minnie, nel racconto della sua protagonista, ha poco di fisiologico, naturale e liberatorio. Questo non lo rende meno sacrosanto o incolpevole, ma dimostra una profondità di analisi e rielaborazione intelligente del trauma che manca del tutto al film, che appare invece un pamphlet vuoto e velleitario, soprattutto perché lega un discorso sull’autodeterminazione a una relazione totalmente impari come quella con una figura adulta e paterna. Forse non l’occasione più felice per celebrare il desiderio adolescente.

In tutto il film ai racconti del diario di Minnie sono affiancate animazioni tratte dai disegni originali di Gloeckner che testimoniano l’ambizione di Minnie a diventare una fumettista. Questo aspetto, unito alla fotografia pastello, ai toni da commedia e alla riproduzione da cartolina della California degli anni ’70, stende una patina di estetizzazione sulla vicenda narrata. Estetizzazione totalmente assente nel fumetto che, come molto underground di quegli anni, sembrava mettere in scena il lato oscuro della controcultura hippy, anche nello stile (si pensi ad esempio a Robert Crumb). Questo ci porta alla seconda domanda, che non riguarda le cause bensì le conseguenze dell’esperienza che vediamo nel film: è necessario trasformare un esperienza traumatica in qualcosa di digerito/digeribile, ovvero di giustificare teleologicamente la sofferenza? O quello che vediamo in questo film è in fondo una grande e pericolosa mistificazione?

È chiaro che Heller tenta di mettere in scena un conflitto tra generazioni. Come è evidente nella scena in cui Minnie e Monroe prendono un acido, la capacità di Minnie di sognare e liberarsi anche attraverso le droghe è opposta al disagio morale ed emotivo di Monroe, che ha un bad trip e si dimostra completamente vulnerabile. Anche la figura della madre, competitiva con Minnie anche nel momento in cui scopre l’affaire e dovrebbe prendere le sue difese, dimostra come sia la generazione precedente a quella della protagonista ad avere un problema. Al netto delle esperienze estreme condivise, sono gli adulti la generazione perduta, mentre Minnie è protetta dal suo talento artistico ma soprattutto dalla sua gioventù, dalla sua vicinanza al mondo magico dell’infanzia che le fa trasfigurare ogni evento in un’avventura fantastica.

Questo è, se possibile, il discorso più pericoloso che il film porta avanti, perché feticizza la purezza infantile proprio come fa l’immaginario pedofiliaco di cui a diversi livelli è impregnata la società occidentale. In questo senso trovo illuminante il discorso di Gloeckner nella prefazione al suo libro, in cui ribadisce che Minnie è “first and foremost, a human being. That she is female and young are secondary”. Questo vale per tutti. Per una Minnie che è riuscita a trasformare in arte e successo la sua adolescenza travagliata ci sono molte altre persone che non ce l’hanno fatta, e quando si parla di abusi l’obiettivo andrebbe sempre spostato dalla vittima al “perpetratore”, se ci interessa capire qualcosa. Se invece il fine è romanticizzare, idealizzare e in ultima analisi sfruttare i traumi, questo è un film perfetto.

Se è questo l’unico modo che il cinema ha di mettere in scena il desiderio femminile per il grande pubblico, preferiamo che il discorso resti appannaggio di pochi stomaci forti, che magari riescano tangenzialmente a turbare qualche coscienza. Quel che è certo è che l’emancipazione (femminile e non) non sa cosa farsene della compiacenza o di false, pacificatorie soluzioni.