Le spie si muovono nell’ombra e al di là delle regole; i ponti uniscono porzioni di terra divise da fiumi, strapiombi o altri ostacoli. Il titolo Il ponte delle spie, che in lingua originale risulta all’incirca il medesimo per quanto suoni genericamente più ambiguo, è quindi fuorviante; questo è infatti un film sul diritto e sulle barriere. La vicenda è quella dell’avvocato statunitense James B. Donovan, che nel 1957 fu chiamato a difendere un agente dello spionaggio sovietico, Rudolf Abel, catturato su suolo americano; successivamente, nel 1962, Donovan negoziò con l’Unione Sovietica il rilascio del pilota Francis Gary Powers, abbattuto mentre si trovava a bordo di un aereo-spia U-2, durante una missione segreta di ricognizione nello spazio aereo della città di Sverdlovsk (Ekaterinburg). Donovan, durante il negoziato avvenuto a Berlino Est, riuscì altresì ad ottenere la liberazione di uno studente americano di economia, Frederic Pryor, arrestato senza alcuna accusa formale dalla polizia della Germania Orientale.

La prima parte del film, dedicata al procedimento a carico di Abel e alle ripercussioni che questo ebbe sulla vita di Donovan, si svolge nel segno del diritto; la seconda parte invece, è dominata dall’idea di barriera, al punto che pure durante la sequenza dello scambio di prigionieri sul ponte di Glienicke, la struttura architettonica, che allora univa Berlino Ovest al territorio di Potsdam nella Germania Est, sembra in realtà svuotata della sua funzione, ribaltandosi anch’essa in uno sbarramento.

Il processo al colonnello Abel, nato in Inghilterra da genitori russi antizaristi, risulta, per le autorità e gli uomini delle istituzioni, una mera formalità; per buona parte della pubblica opinione invece, è una lungaggine inutile. L’unica cosa che conta davvero è la condanna di un nemico degli Stati Uniti: la pura legalità diviene in questo caso un mezzo tattico, per “liberarsi” di un individuo che rappresenta la potenza avversaria e che viene percepito come ostile in senso assoluto. La condanna in termini giudiziali assurge ad annientamento del nemico, della minaccia. Donovan invece, ritiene che il processo debba seguire scrupolosamente regole e procedure, proprio perché esse rappresentano, nell’ambito della rule of law degli Stati Uniti, la garanzia contro l’utilizzo tattico di un diritto ridotto a mera formalità. La questione si fa complessa: solo superficialmente infatti, Donovan difende la forma del diritto e, nel caso particolare, la procedura; egli protegge la “forma concreta” dell’ordinamento contro la formalità sommaria. Il protagonista afferma di credere nella Costituzione e nei suoi principi, che si sostanziano nelle sentenze, nelle disposizioni di legge e nelle regole del processo. Secondo una logica tipica dei paesi di lingua inglese e della tradizione di common law, le regole, frutto di esperienza, riflettono un’etica, una ragionevolezza morale: è questa una costante che si trova in moltissimi filosofi e giuristi di quell’area culturale, da Lon Fuller al suo allievo Ronald Dworkin, fino ad un pensatore di tendenze conservatrici come Roger Scruton. Da questo peculiare punto di vista, Donovan viene rappresentato come l’incarnazione stessa del common law e, in particolare, del diritto statunitense: molti hanno parlato di Donovan come di uno dei molti candidi personaggi spielberghiani, in lotta contro la storia; tuttavia, egli è invece il rappresentante di una tradizione e di un mondo che rischia di essere messo in discussione da nuove logiche come (era allora) quella della guerra tra spie. A tal proposito è indicativa una sequenza nella quale l’avvocato si trova a cena con la famiglia e viene coinvolto in una discussione in merito alla legittimità di una difesa scrupolosa per un individuo come Abel: chi ha dimestichezza col cinema di Spielberg conosce bene la dinamica narrativa che trasforma spesso il desco nel luogo “rituale” dove avvengono rivelazioni fondanti; il figlio più piccolo (peraltro ossessionato dalla possibilità di una guerra termonucleare) e la moglie contestano al protagonista la dedizione alla difesa della spia e il fatto che questi varrà comunque condannato in quanto “traditore”. Donovan, incarnazione della rule of law, eccepisce come Abel non sia affatto un traditore, visto che non è americano, e come l’utilizzo dei termini non sia assolutamente una vuota cavillosità da legulei; a sottolineare poi come egli non sia un comunista, ma nemmeno un progressista, aggiunge che erano i coniugi Rosenberg, condannati alla sedia elettrica, ad essere dei traditori, proprio perché cittadini statunitensi. Rimane il dubbio se questo aspro dettaglio ideologico sia stato ideato dai fratelli Coen (autori della sceneggiatura), o da Spielberg; in ogni caso ci dice molto sia del protagonista e della sua concezione della legge come forma di etica, sia del fatto che, per Donovan, la protezione degli Stati Uniti e della Costituzione assume la forma della custodia di una sorta di diritto naturale.

Il polo opposto di questa tipologia di diritto naturale che trova applicazione nelle norme e nelle prassi che costituiscono l’ordinamento degli Stati Uniti è rappresentato dalle barriere che si materializzano nella seconda parte del film e delle quali il Muro di Berlino è la manifestazione più prepotente e tangibile. Se il diritto è la materializzazione dell’esperienza e di un’etica condivisa, il Muro ne è la negazione: esso è infatti una creazione meramente legale, che scardina le vite e le esperienze che si sedimentano nella storia. Da una parte (la prima metà del film) c’è il diritto, che si presenta come costruzione complessa e vitale, dall’altra (la seconda metà) c’è la pura legge, vista come imposizione, innaturale e anti-culturale. Si diceva che perfino il ponte, luogo arcaicamente simbolico di unioni e incontri, diviene veicolo di divisione: lo scambio dei prigionieri avviene e l’uomo stoico del diritto ottiene la sua vittoria, tuttavia nessuno dei presenti dialoga davvero e ognuno resta dietro una linea, al contempo fisica e ideale.

BRIDGE OF SPIES di Steven Spielberg, Usa 2015, 140′. In sala dal 16 dicembre 2015 (20th Century Fox).