La legge del mercato che ci fagocita tutti e che dà il titolo all’ultimo film di Stéphane Brizé è, in sostanza, la ‘nuova ragione del mondo’ analizzata da un noto studio di Pierre Dardot e Christian Laval (2009) e da molti altri filosofi politici attivi proprio in area francese. Secondo la loro prospettiva, il capitale ha oramai imposto la legge di un liberismo selvaggio non soltanto all’ambito economico ma anche a ogni altro spazio sociale e alla nostra identità stessa, sempre più dipendente dalla ‘messa a valore’, dallo sfruttamento e dall’autosfruttamento delle nostre vite. In tale quadro, le relazioni di lavoro si confermano il luogo principale di assoggettamento degli individui ed esaminandole si possono quindi comprendere meglio i modi in cui il potere del mercato esercita oggi il proprio dominio: svelarne i meccanismi può aiutare ad affrancarsi dalle ingiustizie che molto spesso subiamo o che ci capita di perpetrare noi stessi poiché le abbiamo interiorizzate senza neanche rendercene conto; ciò nondimeno una liberazione vera e propria continua a sembrare molto lontana.

La legge del mercato sviluppa coscienziosamente queste tesi articolandole, fin dalla prima sequenza, in situazioni concrete e in una forma cinematografica ben determinata, esibendo con evidenza il dispositivo scelto. Infatti, il film si apre nel mezzo di un dialogo tra il protagonista Thierry (interpretato da Vincent Lindon) e un impiegato dell’ufficio di collocamento che è costretto a frequentare da quando l’azienda per cui lavorava da decenni ha deciso di delocalizzare altrove la produzione, per ricavarne un maggiore margine di profitto. Thierry ha cinquantun anni, un mutuo sulla casa, un figlio handicappato, è disoccupato da venti mesi. Nella sequenza d’apertura, si lamenta, in modo fermo ma impotente, sull’inutilità degli stage che non gli hanno permesso di trovare un nuovo lavoro. La scena è ripresa con una camera a spalla che si muove tra i due personaggi senza mai filmarli nella stessa inquadratura, isolandoli così ognuno nella sua posizione. Pochi stacchi di montaggio compongono un campo e controcampo che distanzia nettamente lavoratore e istituzione.

Nonostante ogni sforzo di Brizé sia indirizzato a mettere in situazione e in forma una situazione di cui sempre più lavoratori fanno esperienza, le sue soluzioni registiche non sono particolarmente originali (e hanno un referente preciso nel cinema dei fratelli Dardenne). Sono però del tutto nuove per Brizé, che ha voluto realizzare La legge del mercato con un budget ridotto e una troupe di una dozzina di persone per tre sole settimane di riprese, avvalendosi del giovane capo operatore Éric Dumont proveniente dal mondo del documentario. Abituato a girare con luce naturale e in ambienti reali, Dumont è stato messo a braccare il protagonista per lo più con camera in spalla e lunghe focali che frequentemente relegano al fuori campo i suoi interlocutori, e che talvolta lo inquadrano anche di sguincio o di spalle per marcarne lo spaesamento e il progressivo distacco dagli altri.

Per aumentare l’impressione di realismo, il regista ha circondato la star Lindon (interpretazione coronata dal premio a Cannes come miglior interprete maschile) con un cast quasi completamente composto di non professionisti, che nella vita svolgono le professioni dei loro stessi personaggi. Tra loro, c’è anche il delegato sindacale Xavier Mathieu, noto in Francia per avere intrapreso una dura lotta contro la chiusura dello stabilimento Continental di Clairoix nel 2009, a cui sono stati dedicati diversi documentari, e diventato poi attore di numerosi film di finzione (qualcosa di simile è accaduto in Italia a Carlo Marrapodi, sopravvissuto alla strage della Thyssenkrupp di Torino). La scena in cui Thierry e il sindacalista discutono con altri ex compagni di fabbrica chiarisce lo stato di prostrazione del disoccupato, che Mathieu non riesce a coinvolgere nel prosieguo della vertenza contro l’azienda che lo ha licenziato: lui vuole solo “girare pagina” e trovare un nuovo lavoro.

Per la scrittura del film, Brizé si è invece assicurato la collaborazione dello specialista del genere Olivier Gorce, con il quale ha lavorato al soggetto accumulando episodi di cronaca da rimettere in scena per ottenere altrettanti effetti di realtà (i metodi discutibili dei colloqui di lavoro, i direttori di supermercato che licenziano dipendenti alla minima insubordinazione pur di sfoltire il personale, i suicidi che ne conseguono) e raccontando prima la via crucis della ricerca di un lavoro da parte di Thierry e poi quella che deve affrontare una volta trovato un impiego. Entrambe strutturate in una serie di quadri sempre più umilianti per il protagonista (la scena d’apertura, un colloquio di lavoro sostenuto da casa via Skype, un incontro di selezione di gruppo in cui altri, giovani, candidati a un posto sono incoraggiati ad analizzare la sua postura e a criticarla), sono sempre più strazianti nella prima parte per dare più peso al dilemma morale che emerge nella seconda quando Thierry si ritrova dall’altra parte della barricata, responsabile della sicurezza di un ipermercato incaricato di perseguire i clienti e i colleghi colpevoli di piccoli furti di merci o di punti fedeltà.

Dal film emergono il ritratto di un uomo (il titolo di lavorazione del film era non a caso Un homme, il suo titolo internazionale è The Measure of a Man) e il problema della disumanità dei rapporti di lavoro nella società francese (e non solo) contemporanea. Il finale interroga lo spettatore stesso: chi non è contro tale sistema, ne è complice? Chi ancora spera di salvarsi individualmente, ne è ugualmente vittima? La forma scelta da Brizé può però risultare poco coinvolgente: la camera è molto passiva di fronte a ciò che narra, opprimente nei confronti del protagonista braccato da una violenza sociale di cui gli sfugge il senso, ma come lui sostanzialmente inerme… E se nell’ultima scena Thierry accenna un moto di rivolta, la sua presa di coscienza è filmata come una fuga di spalle da cui difficilmente potrà nascere una qualche soluzione più che individuale. Un rimprovero che non è stato risparmiato al film dalla critica militante, ma anche dai Cahiers du Cinema (n. 711) che a proposito del lavoro di Brizé hanno parlato di “hard discount du cinéma naturaliste à la française […]. Bien peu pour nourrir une œuvre de résistance, encore moins de combat”.

La Loi du marché di Stéphane Brizé, Francia 2015, 92′. In sala dal 29 ottobre 2015 (Academy Two).