La vicenda di God Bless the Child abita l’arco temporale di appena un giorno: cullato tra il primo mattino e l’inizio della notte, il film girato a quattro mani da Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck, in stretta collaborazione con la moglie del primo, Rebecca Graham, cala le proprie premesse in un quotidiano così consueto da non potersi, all’apparenza, quasi definire racconto. La ninna nanna in voice over che accompagna i titoli di testa, cantata parrebbe allo spettatore ancor prima che a un bambino, sottende tuttavia lo scarto che l’incipit immediatamente profila. Siamo a Davis, California, in una grande casa familiare con giardino, divisa tra le opalescenze e la penombra delle prime ore del giorno. Non sono chiare − il pubblico potrà sempre e solo immaginarle − le ragioni che spingono una madre, ancora giovane e già vedova, a fuggire d’improvviso dall’abitazione e, sfrecciando sulla strada a bordo di un’auto, abbandonare i propri cinque figlioletti a se stessi.

I registi asciugano al minimo le istanze di questo abbandono, addirittura celando il volto della donna. Quel che conta è che il campo sia sgombro: se di presenze adulte ritroveremo le tracce, sarà sempre entro una parentesi di comico ribaltamento, dove a definire il gioco delle relazioni è il caparbio, anarchico e sotto molti aspetti liberatorio punto di vista dei cinque fratellini, la più grande e responsabile dei quali, Harper, è appena una pre-adolescente. Gli altri oscillano tra il primo e forse l’ottavo anno di vita, tanto fragili ed esposti quanto incontenibilmente selvatici, e attraversano il tempo con la novità, quasi pericolosa, di non avere freni a ogni loro gesto o movimento. Il mondo di una piccola cittadina americana, per quanto satellitare, diventa così il territorio di un rinnovato immaginario. Colazioni condivise, passeggiate a piedi nudi in periferia, lotte in cortile e bagni al cane scandiscono il sentimento di disinvolto stupore che i bambini avvertono per ogni dettaglio dell’esistente, presto intaccato dall’ansia che questa libertà diventi responsabilità, se non direttamente regola. L’intero film lo lascia intendere attraverso l’uso livido della luce naturale, gestita anche negli esterni con diaframmi molto chiusi, lavorando sull’idea che, a fiancheggiare gli slanci di corse e inseguimenti, presto si profili un’ombra di sottile smarrimento. Non si tratta di un pessimistico avvicendarsi del caos, così come ne Il signore delle mosche cui certo questo film riporta per un istante la memoria: a vestire i bambini è piuttosto la percezione confusa delle ferite dell’età adulta, l’intuizione del loro peso nell’economia, non solo materiale, del quotidiano. Questa cifra − con il corredo di implicazioni sociali e politiche che porta con sé − vale specialmente per Harper, chiamata a fare da mamma al fratello più piccolo, ma è una sensazione, un indefinibile umore, che presto circonda anche gli altri personaggi: quando, a tarda sera, la madre si riaffaccia sulla soglia di casa, la risoluzione non sembra affatto compiuta.

Ora, quello che più interessa di questo film molto studiato nell’uso della camera e del montaggio, ma fedele a una temporalità aperta all’evento, allo sguardo dei bambini, mai fiscalmente programmata, è che esso rientri, sotto tutti gli aspetti, nella categoria della cosiddetta opera di finzione. Gli stessi protagonisti sono i figli di Machoian, e le riprese, scandite per sessioni quotidiane, sono durate per circa tre mesi. Il paradosso di ogni definizione è evidente se si pensa che almeno tre dei cinque personaggi non sanno leggere una sceneggiatura, e certamente non ne concepirebbero la funzionalità in termini di accordo coi registi e articolazione drammaturgica. L’operazione degli autori va dunque riconnessa a quella naïvitè infantile che, secondo il metodo Staniskavskij, rappresenta uno dei punti d’approccio ideali per garantire semplicità, profondità e naturalezza alla performance. I protagonisti di God Bless the Child, pur nella condizione di attori, vivono l’esperienza della recitazione all’insegna dei rapidi e spontanei salti d’immaginazione propri della loro età. Tanto nell’organica dei corpi, quanto nei processi mentali del loro agire, non c’è empatia o interpretazione, come qualsiasi scrittura finzionale raccomanderebbe a partire dalla carta, ma puro ascolto attivo della realtà intorno a sé. Per questo il repertorio emozionale cui essi attingono appare tanto più vasto di quello normalmente considerato sufficiente al cinema; per questo, nonostante possa intuire il canovaccio di fondo del film, lo spettatore risulta spiazzato dal suo effetto di verità. Il lavoro di Machoian e Ojeda-Beck non è certo il primo a investire nel canale aperto dell’infanzia come via di fuga alla retorica del senso comune e del controllo: la sua lezione risiede tuttavia nel rendere totalizzante l’indagine del confine in cui il bambino, con la scusa di perseguire un gioco, rivela se stesso. Qui risiedono il candore e l’imprevedibilità dell’innocenza: da qui può ricominciare la ninna nanna, e l’attesa del futuro.