BALIKBAYAN #1 / Kidlat Tahimik

Una figura dimenticata nelle pieghe della storia, quella di Enrique di Molucca, il primo uomo ad aver mai circumnavigato l’intero globo, testimonianza vivente che la Terra è davvero tonda. Schiavo di Magellano, che, ucciso nelle Filippine, non completò il viaggio, diventato uomo libero dopo la morte del navigatore e scomparso almeno secondo i documenti storici. Balikbayan #1 è il ricordo multimediale di questa figura, un film work in progress, mai finito tra il 1979 e il 2015. Enrique serviva a Magellano da interprete indigeno, mentre, da illetterato, raccontava il viaggio attraverso statue intagliate nel legno. Il film, con il suo pastiche linguistico, si sviluppa intorno al discorso della comunicazione e del linguaggio, e dell’arte come forma di espressione. La comunicazione è anche quella tra presente e passato: il continuo andirivieni temporale tra gli eventi storici e il presente prende forma nell’alternarsi di immagini di grana e definizione diversa, 16mm, nastro magnetico, digitale. E i raccordi sono fatti di cinema, immagini proiettate su uno schermo: Magellano era un regista che cercava un produttore per finanziare il suo viaggio attorno al globo. Balikbayan #1 è così un film-viaggio, circolare. Come le fotografie a doppia esposizione, che si vedono nel film, è una compresenza tra diverse forme di rappresentazione artistica, tra primitivismo e classicismo, tra oriente e occidente. Una Babele di arti e linguaggi. Una reincarnazione di figure, immagini, personaggi. L’articolazione di un puzzle che può essere scomposto e ricomposto all’infinito. Come le figure di movimento circolare che compaiono nel film (mappamondi, jojo, le vecchie moviole, e le stesse pizze cinematografiche), Balikbayan #1 è un rullo narrativo che si avviluppa su se stesso in un cortocircuito temporale e storico. Un film che comprende il suo farsi – ma anche altri film come il frammento di L’enigma di Kaspar Hauser, in cui compare il regista Kidlat Tahimik nel ruolo dell’indiano selvaggio cui viene chiesto di parlare nel suo linguaggio – in una stratificazione continua, che potrebbe proseguire all’infinito. [G. Raganelli]

FAIRE LA PAROLE / Eugène Green

La parola è al centro della ricerca artistica di Green, autore che spazia dal teatro al cinema più sperimentale, dal romanzo alla saggistica. Non sembra strano dunque che il viaggio attorno all’Europa intrapreso dal regista americano, ma parigino naturalizzato, faccia ora tappa nei paesi baschi per portare alla luce una lingua lontana dall’ufficialità. Questo documentario, che lascia spazio alle testimonianze, inizia toccando le corde militanti di chi si è sentito condannato a causa della sua lingua natale e della sconvolgente storia del Egunkaria, giornale storico chiuso “per errore”. Ma l’esergo politico serve a introdurre il tema più sofisticato e radicale: quanto una lingua possa contenere il mondo. Attraverso i volti puliti di quattro adolescenti ci immergiamo in una cultura altra, a lungo resistente alla dittatura franchista e sempre rinnegata come portatrice dell’arretratezza contadina. Eppure c’è chi, ancora oggi, ha il coraggio di sceglierla e di scoprire la realtà imparando a nominarla attraverso il suo vocabolario, e non soltanto. Andare alle origini di una tradizione locale, familiare o personale implica conoscerne la storia, comprendere a fondo il suo legame con il canto affinché non si tramuti in mero folklorismo. Una lingua è viva finché informa un mondo e unisce una comunità. Ed è proprio con una festa popolare che culmina il documentario, un viaggio verso la consapevolezza che aiuterà, in primis, i ragazzi che l’hanno compiuto. Nelle loro voci mutevoli, nei loro sguardi curiosi, nei loro corpi portatori della goffaggine dell’adolescenza, Eugène Green fa ancora una volta riaffiorare la dignità dell’uomo e la bellezza della speranza. [D. Persico]

NACIMIENTO / Martin Mejia Rugeles

La foresta colombiana con la sua vegetazione lussureggiante è il luogo di osservazione scelto da Rugeles, regista al suo primo lungometraggio. Tra le fronde degli alberi, riprese in un pittorico 16mm, si dischiude un villaggio i cui abitanti vivono di attività ancestrali come la pesca, tanto che il secolare rito dell’essicazione del pesce, lontano dal frastuono della città, diviene qui la misura dello scorrere del tempo. L’acqua, sia come fiume in cui procurarsi il cibo, che come pioggia torrenziale che destabilizza l’organizzazione domestica, è anch’essa figurazione del tempo, elevando l’essenziale trama famigliare a metafora di una condizione universale. Condizione in cui si trova immerso anche l’uomo occidentale – a cui sembra rivolgersi il regista – ormai incapace di guardare oltre le proprie costruzioni e sovrastrutture. All’interno dei cicli propri di una natura di cui l’essere umano è parte integrante, le vite di padri, madri e figli scorrono lentamente e in maniera inesorabile. Helena, prossima al parto, deve accettare di posare sulla superficie del mondo il proprio bambino, piegandosi alla violenza e alle lacerazioni a cui la natura necessariamente sottopone. L’estremo realismo con cui il regista racconta la continua rigenerazione degli esseri viventi – dall’accoppiamento di due cavalli, sino all’espulsione del neonato, ripresa in tempo reale – si contrappone al livello allegorico della narrazione, producendo l’effetto di una suggestiva immersione in una verità che non necessita di parole per manifestarsi. [F. Monti]

STAND BY FOR TAPE BACK UP / Ross Sutherland

Merita di essere annoverata tra le opere audiovisive più sorprendenti della stagione, questa di Ross Sutherland. Strega fin dalle prime immagini, indistinte, tremule, quelle di una schermata sulla quale, su sfondo nero, si fissa uno schematico display laterale a informarci che una VHS è stata inserita in un lettore. La storia che il film racconta è la storia di questa VHS, passata da una generazione all’altra, posseduta un tempo dal nonno del regista e, alla sua morte, da lui ereditata. Sul nastro restano incisi – o meglio: sovra-incisi – frammenti eterogenei di film (da Il mago di Oz a Ghostbusters), partite di calcio, sigle di serie TV dei primi anni ’90 (Willy, il principe di Bel Air), un bizzarro gioco a premi della televisione inglese, spot pubblicitari, video musicali e altro ancora. La voce del regista accompagna le immagini in un flusso di coscienza il cui tono muta costantemente, infuocandosi, talvolta, prendendo un ritmo indiavolato, altre volte placandosi, diventando quasi un sussurro, alla ricerca di un’intimità con lo spettatore chiamato a condividere l’elaborazione di un lutto. Così, il film svela la propria natura diaristica di riflessione acuta, profonda, per niente banale, intorno al supporto analogico della nostra memoria popolata di fantasmi, un viaggio nella stratificazione dell’irriducibile sentire umano in un’epoca in cui cancellare il passato, riscriverlo, sovra-inciderlo, sembra essere un atto sempre più facile, indolore, privo di conseguenze. (A. Stellino)

UNA SOCIETÀ DI SERVIZI / Luca Ferri

Scrutare il mondo attraverso l’obiettivo di Luca Ferri è un po’ come affacciarsi all’oblò di un’astronave. Il suo è l’occhio vergine di un esploratore extraterrestre che si guarda attorno curioso e pignolo, registrando meticolosamente ogni impressione visiva, dagli spazi urbani agli uomini in carne e ossa. In Una società di servizi, Ferri (affiancato nel montaggio da Enrico Mazzi) punta la macchina da presa sul Tokyo International Forum: spazi asettici, vegetazione artificiale, figure umane battute in vitalità persino dai distributori automatici di bevande. Insomma, tutti gli ingredienti per un sarcastico quanto prevedibile pamphlet contro un’architettura che ha smarrito ogni contatto con l’elemento umano, trasformando ciascun individuo in un automa. Eppure il film somiglia più a un haiku che a un libello satirico: cullati dalle composizioni di Paganini che gli altoparlanti del Forum diffondono incessantemente, ci troviamo a osservare un microcosmo in cui tutto – dalle luci intermittenti alle scale mobili, dal movimento dei passanti al corteggiamento via smartphone – sembra ordinato secondo regole proprie, tanto misteriose quanto comiche nel loro girare a vuoto. «La comicità esiste già fuori di noi», dichiarava Jacques Tati all’epoca di Playtime: «Il problema è saperla cogliere». Ponendosi esplicitamente sulle orme del grande comico francese (nella composizione del quadro, nelle scelte cromatiche, nella cura del sonoro), Ferri finisce per attenuare il furore misantropico dei suoi primi lavori per rivelare una pietas per lui quasi inedita. Il risultato è un “malincomico” balletto nel quale anche l’immancabile memento mori ferriano corre con dolcezza sulle note di una cantata di Debussy, Beau Soir: «Un conseil de goûter le charme d’être au monde ce pendant qu’on est jeune et que le soir est beau, car nous en allons, comme s’en va cette onde: elle à la mer, nous au tombeau». [G. Gimmelli]