Il bidone, o le «bidon», ovvero la frode in tutte le sue forme. I Vitelloni sono cresciuti; all’innocuo parassitismo familiare si è sostituito uno dei volti più sgradevoli del parassitismo sociale. Questo non è uno di quei film di cui si possa raccontare il dettaglio dell’intrigo; non che la sceneggiatura ne sia incapace o valga solo come pretesto, al contrario: si tratta anzitutto di un film di sceneggiatura e il racconto qui viene condotto con esperta abilità. Ma il fatto è che, appunto, si tratta di qualcosa di più della semplice abilità: abbiamo parlato molto in questi ultimi anni di una nuova tendenza del cinema, che sarebbe portato a sostituire alla routine degli sceneggiatori l’eredità delle tradizioni romanzesche: l’arte di Fellini in questo film è infatti un’arte da romanziere; si prenda ad esempio anche solo la costruzione in due parti rigorosamente antitetiche e la bella disinvoltura con la quale vengono introdotti nel corso della narrazione personaggi nuovi, come quello della figlia di Broderick Crawford, di cui nulla sino a quel momento ci aveva fatto intuire l’esistenza, ma che, con il solo ingresso in scena, ribaltano immediatamente tutta la struttura drammatica della sceneggiatura. Si capisce che si tratta di qualcosa di diverso dalla pura tecnica narrativa, e che questi «procedimenti» hanno senza dubbio per Fellini altrettanta importanza, se non di più, della semplice materia romanzesca, che si tratti di fatti o di personaggi. Un universo felliniano c’è già, e i suoi fedeli ritrovano in Il bidone la maggior parte dei temi e delle ossessioni poetiche che erano già presenti, in maniera forse un po’ abusiva, in La strada; la neve, i violini, la legna da ardere e altri accessori hanno ancora il loro ruolo, ma con meno compiacimento, e la mitologia non ha mai la precedenza sull’economia della messa in scena. Rimane il fatto che questo film mi sembra ci tocchi più per via di ciò che suggerisce che di ciò che ci mostra, e per via tanto delle scorciatoie che rifiuta quanto degli espedienti che utilizza: e questo è appunto indice di uno spirito più allusivo che descrittivo, che lo contrappone al suo maestro Rossellini.

Il vero soggetto del film, più ancora che il processo all’inutilità sociale, che non è comunque senza appello (processo molto ambiguo perché, secondo La strada, niente è inutile alla provvidenza universale), il vero soggetto è a mio parere lo smarrimento che si impadronisce a poco a poco, e suo malgrado, di Broderick Crawford, e che lo condurrà alla fine a un sacrificio equivoco, cattivo ladrone fino in fondo, ma con cattiva coscienza. Si vedono abbastanza, immagino, i pericoli di uno scioglimento del genere; e non è fare un complimento di poco conto affermare che Fellini li ha evitati tutti con tanta destrezza quanto poca ne aveva messa in La strada per smarcarsi da trappole simili. Ma soprattutto nell’intera seconda parte del film c’è un accento che non inganna sulla totale sincerità del suo autore, e una sorta di bellezza tragica molto insolita perché nulla deve alle convenzioni del fato, e che sembra nascere quasi unicamente dal viso dell’attore. Conviene dunque cantare le lodi di Broderick Crawford, che attraversa il film come un sonnambulo, lo sguardo smarrito, la bocca impastata, l’andatura incerta, che recita come un automa la maggior parte delle sue scene e si dimostra così il perfetto attore “neorealista”, il più sottomesso alla volontà del regista, interprete puro, corpo alla ricerca di un’anima; così il cerchio si chiude, sceneggiatura e attore si confondono. E a partire dal momento in cui un cineasta riesce in un simile miracolo, è ovviamente inutile appigliarsi ai dettagli. Indiscutibilmente, Il bidone è il capolavoro di Federico Fellini.

“Il bidone de Federico Fellini”, Arts 557 (29 Febbraio – 6 Marzo 1956)