Se esiste un modo con cui gli americani, da sempre popolo senza storia, possano raccontare la loro storia, quel modo risiede nelle immagini. Non un’archeologia dell’oggetto, dell’evento, del fatto importante o traumatico, ma la loro raffigurazione. In The Illinois Parables di Deborah Stratman ci sono stampe, vignette e acqueforti di fine XVIII e metà XIX secolo; poi illustrazioni di romanzi, manifesti, articoli di giornale e dagherrotipi; infine frammenti di cinema, cinegiornali, fotografie pop, murales, graffiti e la nascita dell’estetica postmoderna. Dentro quelle immagini, attraverso un’evoluzione che la Stratman racconta secondo una progressione diacronica, risiede la storia di uno stato americano, l’Illinois, e più in generale la storia, inesistente e al tempo stesso rimossa, di tutti gli Stati Uniti, l’oblio che poggia sul nulla, l’infanzia di una nazione che fa a meno del passato perché vive da sempre nel presente.

Un passato che, dopo quasi un secolo e mezzo di cinema, sappiamo bene non conoscere storiografica ma solo mitografia. E se Deborah Stratman, proseguendo una ricerca già iniziata con i suoi land film e in particolare con O’er the Land (2008) o Shrimp Chicken Fish (2010), cerca di fare qualcosa con questo suo lavoro magistrale – sperimentale, certo, ma umanissimo perché rivolto alla storia degli uomini – è proprio di togliere la storia americana dalla leggenda e sorprenderla per una volta nel solco del tempo, come frutto delle opere e dei giorni. The Illinois Parables riunisce undici episodi (“vignette” come li definisce la sua regista) che da fine Settecento a metà anni ’80 del XX secolo raccolgono e raccontano eventi, personaggi, invenzioni tecnologiche, piccole e grandi tragedie dell’Illinois: sono frammenti a caso di accadimenti evidenti ma sconosciuti, tentativi di individuare, nel paesaggio americano, non solo la velocità e l’azzeramento del tempo alla maniera del deserto raccontato da Baudrillard, ma al contrario la fissità ieratica della pietra, la misera grandiosità del monumento, il mistero di documenti minori che rivelano decenni perduti o passati inutilmente. Fra le mani della Stratman, regista che riunisce nel suo ruolo di ricercatrice storiografia, antropologia e archeologia, l’immagine si fa archivio, tessera minimale che va a compore un quadro parziale eppure collettivo. Un po’ alla maniera di Sufjan Stevens e dei suoi album “geografici” (Greetings from Michigan the Great Lakes State, 2004, e Come on, Feel the Illinoise!, 2006), che costruiscono l’epica di una nazione mescolando privato e pubblico, storia comunitaria e fatti negletti.

Quando la regista americana filma dal vero, e non racconta con materiale d’archivio resti di insediamenti indiani, fallimenti della tecnologia ottocentesca, fanatismo religioso, uragani, incendi, serial killer e i germi di quella violenza urbana che avrebbe portato Chicago a diventare la Chiraq di Spike Lee, usa le immagini con una consapevolezza e una precisione che nascono proprio dalla minuzia del suo approccio storico. In maniera opposta e contraria al fenomenale piano sequenza del precedente Hacked Circuit (2014), questa volta è il quadro fisso a racchiudere il senso del lavoro della Stratman. In The Illinois Parables c’è infatti una scena piccola e bellissima in cui una parete bianca in stoffa viene lentamente bruciata da un piccolo focolaio: narrativamente è legata al precedente racconto di una serie di incendi che devastarono diverse zone dell’Illinois negli anni ’30, ma su un livello più ampio quella macchia nera che diventa poco alla volta rossa, gialla, arancione, e da piccola si fa sempre più ampia, ricorda una macchia solare, la riproduzione infinitesimamente piccola di un fenomeno infinitesimamente grande, un buco così gigantesco – così dicono gli astronomi delle macchie solari – da poter contenere la Terra stessa.

Duplicata, ripetuta, ripresa in undici capitoli che raccontano anche l’evoluzione di tecniche meccaniche ed estetiche nella riproduzione del reale, l’immagine subisce una reductio ad unum e diventa emblema della stessa storia americana: un accadimento, un oggetto da interpretare liberamente, con nessuno o molteplici significati, che esiste nel momento in cui qualcuno lo trasforma in immagine e qualcun altro lo guarda.