Con L’accabadora Enrico Pau compie un’affascinante operazione d’inversione verso un cinema classico e, a tratti, squisitamente calligrafico in evidente discontinuità con quella che comunemente è identificata la sua matrice urbana (Pesi leggeri, Jimmy della collina). Temperamento inquieto, con questo progetto vagheggiato per molto tempo Pau si avvicina a un momento cruciale della storia recente della Sardegna, incarnandolo nella traiettoria esemplare del destino di una donna (la dolente e sorprendente Donatella Finocchiaro). Rispetto ai film di ambientazione urbana, L’accabadora evidenzia in Pau un approccio verso un cinema che possegga sia astrazione, epica e critica, sia le spinte del melodramma.

Il tentativo di raccontare una Sardegna colta alle soglie della modernità, annunciata dalle bombe degli alleati liberatori, attraverso il viaggio della protagonista dalla campagna alla città, possiede il respiro caratteristico del romanzo di formazione. Pau, però, occhio molto attento alla componente pittorica del suo cinema, organizza il passaggio, o il mutamento di stato, non come mero scatto di sceneggiatura, ma ragionando in termini di un’alchimia cromatica in grado di rendere conto dei tormenti della protagonista. Dagli interni contadini dove si amministrano i ministeri di una morte pagana, memori della pittura fiamminga, tutta ombre e forme sottratte solo parzialmente al buio, agli esterni panici di una natura autenticamente indifferente alle sorti degli uomini, anch’essa in procinto di essere drammaticamente aggredita dalle vicissitudini della storia. Pau coglie con estrema felicità figurativa il contrasto fra il ventre rurale di una società alle soglie della modernità, ma come dimenticata da essa, e l’ergersi imperioso di una natura quasi astorica, eterna. Non potrebbe essere più stridente, dunque, lo scontro fra gli interni borghesi cagliaritani, colti in una luce abbacinante nonostante l’emergenza della guerra, e un corpo che testimonia quasi la renitenza a un cambiamento che è soprattutto un dimenticare, un diventare altro.

Pau filma con estrema commozione e forza l’agone di una metamorfosi sofferta eppure improcrastinabile. In netta controtendenza rispetto a quanto accade nel cinema contemporaneo oggi, il regista si confronta con un’idea di classicità che deve tanto sia al tardo De Sica quanto al periodo centrale di Bolognini e di un direttore della fotografia troppo poco ricordato come Ennio Guarnieri. Raccontare uno snodo cruciale della storia recente attraverso la forma (paramnestica) di un cinema apparentemente fuori tempo massimo. Un cinema apparentemente “classico”, per mettere in scena un processo di mutazione ancora in pieno svolgimento. Un paradosso fertilissimo che conferisce al film di Pau le sue qualità addirittura astratte, nelle quali riflette con forza ancora maggiore i conflitti affrontati dalla protagonista. Nel mettere in campo canti tradizionali sardi e la presenza del cinema stesso (le immagini della processione), il regista evidenzia una forte consapevolezza rispetto al come la forma stessa della storia prenda corpo come altro reale. Il cinema si pone in relazione alla sua stessa immagine (come dispositivo di riproduzione che si riflette… angelus novus della storia) oltre che differenza e alterità rispetto alla musica. Il corpo dell’accabadora, alla stregua dell’ombra di una leggenda o di un sogno, scompare fra i margini di un’altra storia; un passato che ancora assomiglia a un santo che attraversa un paesaggio di macerie, e un presente che assomiglia anch’esso a una distruzione mai vista.

L’accabadora ci sembra in questo senso un’opera importante nel canone di Enrico Pau, perché conduce la sua opera in territori che il cinema italiano raramente ha esplorato con tale forza e passione. Non solo. La complessa costruzione dell’immagine del film, il montaggio franto e non lineare, sono i segni, tangibili, di un processo storico altrettanto complesso e non lineare. L’irrequietezza formale del film, nonostante il suo richiamo a un classicismo di altri tempi, è a sua volta il segno di un approccio politico non banale, in grado di accogliere contraddizioni e tracce spurie offrentesi, in ultima analisi, come immagine attendibile di un processo storico altrimenti indicibile. Un risultato assolutamente non scontato, che conferma Enrico Pau come uno dei cineasti italiani più interessanti in attività.