Nell’edificio del pensiero,

non ho trovato nessuna categoria

su cui riposare la fronte.

in compenso, quale cuscino è il caos!

al di fuori della dilatazione dell’io,

conseguenza della paralisi generale,

non vi è rimedio alle crisi di annientamento,

all’asfissia nel nulla,

all’orrore di non essere altro che un’anima in uno sputo.

siamo tutti dei commedianti:

sopravviviamo ai nostri problemi.

Cioran, Sillogismi dell’amarezza, 1952

(trad. it. Cristina Rognoni per Adelphi)

 

Bambini in un parco, anziani che camminano, uomini e donne al lavoro, sguardi nel vuoto, una comunità di fronte alla globalizzazione, clienti in un grande magazzino di articoli elettronici, l’avvento del regno delle macchine e del virtuale, la ricezione privata di un film culto, internauti visionari, un collettivo di artisti, persone disperate di ogni età, l’alienazione della società dello spettacolo, gli Inuits al cospetto di un’acculturazione violenta…

Se si guardano i suoi film con attenzione, siano essi ripresi direttamente con una 16mm, prodotti con una videocamera digitale o il risultato di una selezione di immagini estratte da internet, si capisce chiaramente una cosa: che Dominic Gagnon s’interessa alla vita degli esseri umani. Ma lo fa da lontano. Se rifiuta il contatto diretto con coloro che filma o riproduce nei suoi lavori, se considera ogni individuo, incluso se stesso, come un universo a sé, è perché non vede alcuna soluzione collettiva al dolore di vivere. Per di più, in questo modo, attribuisce alla sua concezione dell’esistenza una connotazione provocatoria e ribelle. Posizione tuttavia alleggerita da un certo umorismo assurdo che emerge di tanto in tanto nei suoi film. Il caos può essere tragico, ma anche comico.

Di fronte all’opera di un tale cineasta, Emil Cioran costituisce un riferimento possibile con i suoi aforismi e il suo pessimismo cosmico dalla vena surrealista. Se l’ironia permise allo scrittore filosofo di captare l’assurdità della vita e di salvarlo dal suicidio, nello stesso modo essa allontana il cineasta dal nichilismo, instaurando tra questa espressione della mente e la tentazione di abbandonarvisi la stessa distanza che mantiene nei confronti delle persone che popolano le sue opere. Perché, nei suoi film, Gagnon evita ogni atteggiamento di tipo dimostrativo. Non pretende di spiegare, ma solo di mostrare. In questo modo, raccogliendo la parola di uomini e donne fragili in termini di singolarità piuttosto che di massa, rinnega il sistema e le sue convenzioni. D’altra parte, introducendo momenti di umorismo involontario, fa scattare qualcosa che lo allontana sia dall’adozione di un possibile sguardo ironico o sprezzante sia da un giudizio ideologico.

La distanza, spaziale e temporale, è uno dei motori della rappresentazione al cinema. Il “vicino” o il “lontano” sono due categorie etiche tanto quanto estetiche. E vicino – secondo la lezione del cinema diretto – significa condividere la vita e l’energia delle persone filmate, le loro speranze e delusioni, le loro gioie e dolori. Ciò significa anche utilizzare la macchina da presa come un ponte verso l’“altro”, avere fiducia in una soluzione dell’esistenza condivisa. Essere lontano, al contrario, implica aderire a una posizione meno fiduciosa, a un possibile giudizio, a una dimensione più “ideologica”. Il che presuppone un pensiero preesistente a cui adattare le immagini filmate. E anche una certa paura di esporsi, e di far parte della massa. Stare a distanza dalle persone o dalle situazioni filmate genera una certa freddezza e garantisce al cineasta di tenere sotto controllo le situazioni. La prossimità comporta invece una certa incandescenza delle immagini e il rischio di un’impudicizia, di una complicità che potrebbe compromettere l’equilibrio del film.

Trovare il giusto mezzo, nello sguardo e nella struttura del racconto, è un obiettivo cruciale per il cineasta. Gagnon tenta progressivamente di raggiungerlo. E lo fa servendosi più del montaggio che della posizione della macchina da presa poiché dal 2010 non è più lui a filmare i suoi lavori. Questa distanza nei suoi film non è quella del demiurgo, del maître à penser, né quella del funzionario di emittente televisiva o dell’emissario del sistema. È la distanza di colui che osserva l’umanità per trovare il proprio spazio tra i viventi. Né troppo vicino, né troppo lontano, Gagnon è una sorta di agnostico formale. Il legame che esiste tra questo cineasta, artista e artigiano e i suoi personaggi è quello che il pittore intrattiene con i suoi modelli: di osmosi, di compassione, di solidarietà; queste figure gli si addicono molto. Il suo sguardo non è quello del padre che giudica e dispone di coloro che rappresenta sullo schermo, ma quello del fratello nascosto.

Ma se la distanza è legata anche alla dimensione temporale, nel cinema più recente di Gagnon questo tempo è anche quello del montaggio che, giustapponendo internauti che si esprimono, funziona come un acceleratore di particelle discorsive. La somma delle loro parole ci dà accesso a una sorta di CERN dell’umanità in cui si ritrovano tutta la saggezza e la stupidità del mondo. È in questo meccanismo divoratore di montaggio che le distanze si moltiplicano e si accorciano, senza preavviso. I personaggi dei film realizzati con immagini estratte dal web, quando parlano alla macchina da presa, parlano a se stessi, sperando allo stesso tempo che tali immagini siano viste altrove. Ma non è così che vanno le cose: come dichiarato da Gagnon in alcune interviste, questi filmati postati su YouTube sono “visti” pochissime volte per cui – ed è la sua ipotesi – i soli ad averli guardati sono gli stessi che li hanno postati. Sono come messaggi in bottiglia destinati a tornare nelle stesse mani di chi li ha lanciati in mare. Ma Gagnon se ne impossessa e li porta al cinema. Una questione privata che sperava di diventare pubblica lo diventa, ma in una forma diversa. Il montaggio introduce un altro tipo di distanza, che non è più quella del passaparola. La distanza variabile di queste facce parlanti si moltiplica e muta il valore delle immagini. Gli slogan collidono con altri slogan. La solitudine diventa moltitudine. Gli imperativi si trasformano in domande. Il discorso del mondo prende forma. È questo dispositivo di montaggio che rende le immagini dei film di Gagnon indeterminabili, perché il cinema che ne risulta è uno spazio di interrogativi, in cui immagini lisce e chiare diventano disturbate e ognuno è portato a farsi delle domande sul mondo, sugli altri e su se stesso. Un’analisi trasversale della sua produzione dimostra molto bene tutto ciò.

Inizialmente Gagnon tasta il terreno, il campo d’indagine. Certo, ha già alle spalle dei brevi film di finzione (che odia) e film di skate o di snowboard, ma in seguito scandaglierà quell’ambiente in tutti modi. Inizia andando a tentoni, passo dopo passo. È così che nascono i suoi primi film: Beluga Crash Blues, Parapluie Bomb City, Du moteur à explosion. Sono film in cui si vede già la direzione dello sguardo, in cui si capta già l’intenzione e l’intuizione dell’artista, ma dove tutto è ancora esitante, nel suo profondo, come una farfalla nel suo bozzolo. Lo sguardo sulla vita è uno sguardo che ne capta la serialità noiosa. L’infanzia, l’età adulta, la vecchiaia ci sono e tutto è grigio, in bianco e nero, sottoposto alla disciplina della fatica e del dolore. È lo sguardo dell’uomo appena uscito dalla Genesi biblica, con le spalle verso l’Eden, e il volto verso la vita materiale. È lo sguardo del bambino che si dice: “È davvero questa la vita?”. In ISO entrano in gioco le parole e la realtà si fa più complessa. E anche il gioco. Gagnon, nel suo primo e unico film narrativo, approccia i temi che continueranno ad animare le sue opere successive: lo scontro delle comunità e degli individui con il sistema, la lotta contro le macchine, la solitudine, la farsa come détournement. Il sistema è poi analizzato nelle sue singole parti, come in The Matrix, Total Recall e Blockbuster History, in cui si smonta la propaganda commerciale, si dice addio all’analogico e si indaga sulla percezione collettiva di un film culto. Questi cortometraggi sono allo stesso tempo degli esperimenti e delle sfide. Gagnon trasforma l’esercizio dello sguardo in motore del pensiero e ne constata l’effetto. Il campo della sua osservazione del mondo passa dal reale al virtuale. Come se la società dello spettacolo avesse già mutato la società umana. Il virtuale è diventato reale, il reale è diventato virale.

Con High Speed siamo già dall’altra parte dello specchio. Come Alice nel paese delle meraviglie, Gagnon entra in punta di piedi e comincia a esplorare una nuova “terra incognita”: l’uomo dalle osservazioni lucide e visionarie, il profeta della massa silenziosa, la saggezza del pazzo. DATA è il manifesto di tutta questa nuova attività. Che era già presente fisicamente; ma che ha ormai assunto anche ragioni teoriche, artistiche e culturali, sociali e politiche. Society’s Space fa eco a DATA: se in quest’ultimo l’obiettivo era detournare i mezzi di produzione in modo da rivolgerli a favore della creazione personale (ludica, artistica o ispirata al luddismo), nell’altra opera è il sistema che mette in atto tutta la sua potenza mentre la voce di Debord, anticipando il futuro, resiste a un flusso di immagini che mostrano il trionfo dello spettacolo. Giungiamo infine ai film che prima e dopo questi segnano il momento di maggiore compimento e interesse dell’opera di Gagnon: Rip in Pieces America, Pieces and Love All to Hell, Big Kiss Goodnight, Hoax Canular, Of the North. Qui Gagnon e i suoi personaggi praticano con i media lo stesso rito di antropofagia culturale predicato da Oswald De Andrade. Il personaggio di High Speed, Joetalk100, le donne e gli uomini arrabbiati, gli adolescenti ossessionati dalla fine del mondo, gli Inuit distrutti di Of the North sono i fratelli degli artisti e dei personaggi di DATA. Si nutrono delle immagini altrui per costruire la propria. Sono abitati dallo spirito di ribellione situazionista di Guy Debord. Le loro azioni e parole conferiscono ai film di Gagnon il loro carattere indeterminato. La distanza praticata dal cineasta nell’oscurità del suo laboratorio si annulla all’improvviso. Lo spettatore non ha più nulla sotto controllo. È sommerso, inquieto, preda di dubbi. Le immagini lo mettono in discussione, lo provocano, lo obbligano a farsi guidare esclusivamente da intuizioni. Senza l’appoggio del cliché, non resta che la risposta dell’intelligenza… o della rabbia. Per questo, Of the North, che come i suoi altri film richiede un’immersione totale, ha provocato tante reazioni istintive quante di adesione intellettuale. Opera aperta, sintesi del caleidoscopio umano, sensazione, sensibilità e sentimento fusi in un’estetica disturbante; il cinema di Gagnon è questo. Chi cerchi immagini edificanti sull’umanità dovrà rivolgersi altrove.

Se gli aforismi di Cioran si prestano bene a introdurre i suoi film, possono anche fornirne una sorta di epilogo. I suoi personaggi, venati di umorismo nero, sono tutti in qualche modo alle prese con l’inconveniente di essere nati. Ma sono tutti anche dei commedianti. Gagnon, nell’ombra, con la fronte a riposare sul cuscino del caos, ci pensa e sorride.

[Ripresa del testo del direttore artistico di Visions du Réel, pubblicato sul catalogo dell’edizione 2016 del festival; traduzione di Silvia Nugara].