Produttore di Alice Rohrwacher e Leonardo Di Costanzo, Carlo Cresto-Dina è tra i professionisti più interessanti dell’attuale panorama cinematografico italiano, sempre pronto a tentare esperimenti inusuali per gli standard del nostro paese. Deciso a perseguire un’idea di cinema italiano “da esportazione”, ovvero capace di elaborare contesti e immaginari propri del nostro territorio in una forma dal respiro internazionale, si muove tra Bologna e Londra con la società Tempesta e un’evidente propensione a favore dei giovani e degli esordienti: da poco ha prodotto i primi film di finzione di Irene Dionisio e Caterina Carone, e altri ne ha in cantiere. Lo abbiamo incontrato per tentare di prefigurare scenari futuri, con un occhio allo slancio creativo e all’altro alle necessità economiche che regolano il mercato; ma anche per discutere della nuova legge cinema e delle potenzialità legate al diffondersi del digitale e della rete come luogo di fruizione di film.


La prima cosa che vorrei chiederti riguarda la scelta di dare il nome di Tempesta alla vostra casa di produzione…

La tempesta è l’ultimo dramma scritto da Shakespeare, un dramma che è stato molto importante nella mia formazione sia per l’opera in sé che per la lettura che ne ha dato una studiosa ora scomparsa, Frances Amelia Yates, in un testo intitolato Gli ultimi drammi di Shakespeare che spiega come dietro queste ultime opere, e in particolare La tempesta, ci sia la messa in scena di un vasto progetto culturale, che è anche quello elisabettiano, di “comune culturale europea”. Su un piano meno intellettuale, poi, la figura di Prospero, uno dei protagonisti dell’opera, mi è molto cara, e tutti noi che lavoriamo a Tempesta – dove, per statuto, si deve aver letto quest’opera! – abbiamo una grande predilezione per Calibano, il mostro inguardabile che però è caratterizzato da momenti di altissima poesia.

Questo progetto culturale elisabettiano di cui parli immagino trovi rispondenza nel progetto artistico che caratterizza Tempesta, ovvero quello di realizzare un cinema radicato nella realtà e nell’immaginario del nostro paese ma che possa essere compreso e apprezzato fuori dai nostri confini, è così?

Sì. Il nostro tentativo, a volte più riuscito, a volte meno, è quello di realizzare film che si rivolgano a un pubblico internazionale, europeo. Quello che chiediamo ai nostri registi, infatti, è di pensare le loro opere rivolte a un pubblico più vasto di quello italiano. I due elementi necessari, quelli che ci portano a interessarci nei film che facciamo, sono la “poesia” e la “profezia”, e se per poesia può essere evidente comprendere a cosa mi riferisco, per profezia non intendo la divinazione del futuro, á la Nostradamus, ma mi riferisco alla figura di un profeta che è prima di tutto un lettore del presente. Di recente mi hanno chiesto di scrivere in due righe cosa fosse Tempesta e quello che mi è venuto spontaneo rispondere è stato: “Il presente è il nostro mestiere”. La capacità dei registi di fare a botte con il presente, con i suoi nodi e snodi drammatici è quello che maggiormente ci interessa.

Siete anche molto propensi a lanciare autori giovani, da Alice Rohrwacher a Irene Dionisio e Caterina Carone. Come mai prediligete gli esordienti e cosa c’è di interessante nel lavorare con i giovani?

Con i giovani si può sperimentare, cercare nuove vie, pensare fuori dalle regole precostituite e insieme a loro si mettono in campo sfide importanti. Lo dico con un po’ di stupido orgoglio, perché realizzare opere prime, e finanziarle per quello che meritano, non è un’impresa da poco, e quando percepisco la difficoltà di un’impresa mi esalto. Penso poi che, laddove funziona, il lavoro con questi giovani autori sia un lavoro che tocca la parte più incandescente del presente, in maniera diretta. Ci tengo a specificare che tra i nostri autori figura anche Leonardo Di Costanzo che, pur non essendo immediatamente ascrivibile alla categoria dei giovani di cui stiamo parlando, realizza film che dal punto di vista dell’interrogare il presente sono potentissimi. Insomma, la scelta di lavorare con gli esordienti non è vincolante. E non bisogna pensare che i giovani alle prime armi siano più malleabili degli autori affermati, perché le persone con le quali lavori da tanto tempo sono unite a te da una fiducia e da un’intesa molto forte, mentre gli esordienti arrivano con delle idee molto precise riguardo quello che intendono fare.

Come ti relazioni con i tuoi registi? Quanto conta la relazione umana?

Si tratta di una relazione professionale, principalmente, anche se è scontato che il lavoro fatto insieme stabilisca poi relazioni di amicizia molto importanti, profonde. Il percorso che si compie insieme quasi sempre non prende il via dal progetto ma da un’intesa sia umana che artistica che si concretizza in una o più idee sulle quali misurarsi. Si lavora insieme fin dall’inizio ma nel rispetto dei reciproci ruoli e con un’assoluta libertà di fondo. Ovvero: la situazione ideale di lavoro, a mio parere, è quella in cui il produttore e il regista si sentono liberi di invadere i reciproci campi di pertinenza, per mezzo di consigli, suggestioni, ma alla fine ciascuno, nel proprio ambito, ha l’ultima parola. In ogni caso, i film nascono da una relazione tra un produttore e un regista. Spesso quando un film non funziona è perché non ha funzionato in primis quella relazione.

Spesso, purtroppo, lo si capisce troppo tardi… Tu come fai a capirlo fin dall’inizio?

Non saprei dirti… Lo capisco abbastanza presto. Quando la relazione funziona lo si capisce subito, altre volte è evidente che non c’è l’interesse, il piacere di lavorare insieme, non c’è intesa sul progetto comune, e allora sarebbe meglio lasciar stare.

Il cinema che produci ha un forte radicamento nel reale, e in questo sei stato anche un precursore. Considerando l’attenzione riservata oggi, a livello internazionale, a registi come Rosi, Minervini, Marcello, vedi tutto ciò più come un segnale di una strada che bisogna continuare a perseguire o l’apice di un fenomeno destinato a esaurirsi?

Faccio sempre molta fatica a stabilire o riconoscere delle tendenze… Credo che le domande, molto importanti, forse spietate, riguardo il cinema d’autore nel suo complesso oggi siano altre e riguardano soprattutto il futuro della forma cinema. C’è una tendenza generale del pubblico, che vedo fortissima, a identificare il cinema come luogo della spettacolarità per cercare altrove la complessità drammatica, e questo è un problema. Se non ci poniamo queste domande finiremo per continuare a fare film che circolano sono nei festival e interessano solo chi i festival li frequenta; o, peggio ancora, realizzare film che potremmo definire “museali”. Se questo è quello che ci interessa, bene così, altrimenti è fondamentale porsi la questione. Non è una questione di mercato, attenzione, è una questione di pubblico. Ci dobbiamo chiedere “chi guarda i nostri film”, perché se finiamo per guardarli tra di noi, non so se è davvero una buona cosa. Possiamo anche dirci che quello che facciamo ha un valore, ma continuo a pensare che anche il pubblico che guarda i film abbia un suo valore. Per questo ti dico che la domanda che più mi preoccupa, al momento, è: “per chi facciamo i nostri film?”. Io non voglio fare cinema che va solo ai festival o finirà nei musei – anche se in qualche modo partecipo di questa tendenza… In tutto ciò ritengo che anche la critica abbia una sua rilevanza, ma deve essere una critica competente, informata, appassionata e non ne leggo molta in giro. Oggi, poi, credo che la critica rivesta un ruolo molto importante nel far circolare le opere, perché chi fa critica a volte fa anche il programmer, il selezionatore per i festival. Ma se posso dare un consiglio, forse bisognerebbe pubblicare il codice deontologico dei critici tedeschi, dove si dice che non puoi essere invitato da nessun festival a spese del festival, non puoi andare a cene organizzate dai produttori… Cercatelo e traducetelo. Qui da noi è tutto un pasticcio, e critici anche bravi hanno smesso di fare il loro lavoro per fare altro, a spese dell’integrità del mestiere.

Se posso spezzare una lancia a favore dei critici, non credo siano i primi responsabili dello svilimento dell’integrità del loro mestiere, ma qui apriremmo un discorso che ci potrebbe molto lontano… Tornando al cinema, e all’idea di un cinema che dialoga in maniera positiva, anche in senso qualitativo, con il pubblico, quali autori svolgono questo ruolo in Italia?

(Lungo silenzio) Potrei farti il nome di Matteo Garrone, un regista che mi sembra riesca a elaborare la propria opera ponendosi in maniera forte il problema del pubblico, al di là del fatto che i suoi film siano più o meno riusciti. Per questo guardo al suo lavoro con grande attenzione, ma in Italia c’è poco altro. Se invece guardiamo fuori dai nostri confini, beh, tutto cambia, perché in Inghilterra, ad esempio, c’è la possibilità di fare film importanti che incontrino il grande pubblico…

Per fare film importanti ci vogliono non solo idee ma anche soldi. Tu hai detto che far passare l’idea che questi film si fanno “con poco”, “con minimi budget” è ingannevole e pericoloso. Bisogna far capire, invece, che questi lavori non si fanno con poco, e bisogna farlo capire tanto ai giovani registi che a chi questi film li finanzia.

Certo! Trovo abbastanza rivoltante l’idea di fare film con 30, 80, 150 mila euro. Perché la verità è che tu hai fatto il film con più soldi ma hai convinto un certo numero di persone più o meno emotivamente legate a te, se non disperate, a lavorare per il film gratis o quasi. Se io offro alla mia donna delle pulizie la metà di quanto la pago all’ora forse lei è talmente disperata da accettare ugualmente, ma io sono un pezzo di merda. Se faccio la stessa cosa in ambito cinematografico diventa un motivo d’onore e questo a me non va, perché lo sfruttamento è sfruttamento sempre. Ai tempi degli scioperi duri chi lavorava gratuitamente veniva menato, ed era giusto! Non menare le persone, intendo, ma contrastare questo sistema di cose. Qui invece noi facciamo glorie nazionali di chi gira film facendo lavorare gratis gli altri. Non va bene: stai rubando soldi ai tuoi amici, perché se va male pazienza, ma se va bene ne godi solo tu. Lo dico anche contro i miei interessi, se vogliamo, ma credo che in Italia sarebbe utile fare meno film ma finanziati meglio. In questo momento forse da noi non è possibile, perché abbiamo un unico finanziatore che deve pensare a tutti, ma davvero sarebbe meglio arrivare a realizzare meno film ma con finanziamenti più adeguati per ciascuno.

In quest’ottica, quanto possono essere utili le coproduzioni?

Le coproduzioni sono fondamentali, intanto sul piano finanziario: tutti i nostri film, salvo qualche eccezione, hanno più del 30% di budget coperto dalle coproduzioni. Ma sono anche fondamentali per dare ai film quella dimensione europea che ricerchiamo e per far confrontare i registi giovani con realtà diverse e commissioni, distributori internazionali, con visioni differenti dalla nostra. Questo fa crescere contemporaneamente la nostra società di produzione e i nostri autori.

Come valuti, invece, la nuova legge cinema?

Credo che molto dipenderà dalla maniera in cui verrà attuata. Forse se la guardi da vicino, se la analizzi nel dettaglio e la smonti, i soldi sono un po’ meno rispetto a prima, ma contiene anche molte cose buone, mi pare. Nel complesso l’atteggiamento mi sembra giusto e mi pare una legge equilibrata ma, ripeto, molto sta nel modo in cui verrà messa in atto. C’è un’attenzione al cinema nuovo che mi piace molto, c’è un aumento delle risorse e d’altra parte ci leggo una tendenza a trasformare i contributi al cinema in meccanismi automatici e quindi erodere sempre di più la discrezionalità dei contributi e questo potrebbe essere un pericolo, perché nel momento in cui si investono soldi pubblici, lo Stato dovrebbe prendersi dei rischi e dare dei giudizi, premiando sia il valore che i risultati e non distribuire automaticamente e indiscriminatamente, ma va detto che questa è una tendenza mondiale.

Sappiamo che avete appena prodotto il primo film di finzione di Irene Dionisio, pronto ad andare ai festival. Cos’altro ha in cantiere Tempesta?

Il nuovo film di Leonardo Di Costanzo verrà girato a settembre, Alice Rohrwacher sta scrivendo, al momento, ed è ragionevole pensare che girerà a fine anno o all’inizio del prossimo, e poi abbiamo un’altra esordiente, milanese, Chiara Bellosi. Infine stiamo lavorando a un progetto di fiction per teenagers in collaborazione con Rai Fiction, perché è un nostro grande interesse sondare le possibilità del digitale, della rete. Ecco, credo che il futuro del cinema e del lavoro che facciamo passerà da lì.