Truth, o di come il cinema americano mainstream non rinunci alla sua vocazione per eccellenza: raccontare storie. Diretto dall’esordiente James Vanderbilt – sceneggiatore al debutto dietro la macchina da presa dopo aver partecipato alla sfortunata bottega di Amazing Spiderman e sequel – il film ripercorre le vicende attorno a Mary Mapes, produttrice televisiva divenuta celebre per aver “quasi” incastrato Bush. In occasione di un episodio del programma giornalistico 60 minutes, Mapes sfoderò uno dei suoi sensazionali scoop: un documento che provava l’estraneità di George Bush alla Guardia Nazionale dell’Aeronautica del Texas. È il settembre del 2004, e l’allora presidente degli Stati Uniti si trova a un passo dal secondo mandato, prima della sfida con John Kerry (rievocata, come da manuale, nella sequenza d’apertura del film). Tutto vira rigoglioso nella direzione della temeraria Mapes e di Dan Rather, anchorman di grido di stanza alla CBS: qualcosa, però, si oppone alla quadratura del cerchio. I documenti e le prove vengono smentite, i testimoni latitano, la credibilità cede: tutto crolla.

Torniamo alla dichiarazione iniziale: agli americani piace raccontare storie. Truth, in questo senso, è un’opera interessante, ispirato alle memorie della stessa Mapes (Truth and Duty: The Press, the President, and the Privilege of Power), racconta la sua storia in senso letterale. Ovvero: l’opera di Vanderbilt (sceneggiata dal regista stesso) trova il suo baricentro nella visione battagliera della protagonista, e nella spinta che motiva chiunque voglia fare il mestiere del giornalista in modo integro e combattivo. Il problema più grande di Truth si insinua nell’ibrido che ne costituisce la forma: l’accesa partigianeria intreccia le sue maglie a un impianto tradizionale di dramma vigoroso sul mondo dell’informazione. Quella di Vanderbilt è un’opera del tutto priva di personalità nella forma, che stride a contatto con i suoi contenuti. Si potrebbe aggiungere che il film sguazza con gioia nell’oceano di profonda aura liberal emanata, oltre che dalla vicenda raccontata, dalla presenza di un nume tutelare come Robert Redford, interprete funzionale al personaggio di Dan Rather.

Quintessenza liberal allo stato puro, insomma, compressa dentro un rigore che non sempre ha ragion d’essere, tradizionale a ogni costo, calcolato in ogni inquadratura. Il più grande fallimento dell’esordio di Vanderbilt, che paradossalmente è pure godibile, sta tutto negli intenti: la ricerca spasmodica della verità, “gridata” a caratteri cubitali pure nell’incipit, si smarrisce nella prevedibilità di un meccanismo, meticoloso e privo di ogni colore. E quindi via libera al solito immaginario che ormai lega il giornalismo al cinema americano: giornalisti in maniche di camicia, occhialoni, urgenza biologica di mettere sul piatto una «story».

La regia di Vanderbilt non ha un guizzo che sia uno: quello che avrebbe dovuto essere un titolo acceso e dilaniato da un furore corroborante diventa piuttosto un freddo esercizio di stile, un improvvido debutto bruciato già ai nastri di partenza. Tutto si risolve nei soliti plausi agli attori: Redford, ma anche un ritrovato Dennis Quaid e, manco a dirlo, una strepitosa Cate Blanchett all’apice del suo virtuosismo interpretativo. Se non fosse per la sua intensità, e per la sua capacità di modulare emozioni contrastanti con ormai nota abilità, Truth sarebbe stato ancora più irritante di quello che già è. Con lo stesso materiale, un regista come Robert Benton ne avrebbe cavato fuori un buon risultato. E viene da chiedersi cosa ne avrebbe fatto Aaron Sorkin ispirato da Newsroom, o David Fincher, ma forse voliamo troppo in alto. Di certo Vanderbilt si è fatto più onore quando ha sceneggiato Zodiac.

Nota: in questo pezzo non si cita a sproposito Tutti gli uomini del presidente. Ci hanno già pensato in tanti con il pur dignitoso Spotlight. Con questo sarebbe stato troppo.

TRUTH di James Vanderbilt, USA/Australia 2015, 112′. In sala dal 17 marzo Lucky Red