Sulle montagne del Kurdistan le guerrigliere del PKK svolgono il loro addestramento per combattere il Daesh, l’auto-proclamato Stato Islamico. In queste terre al confine tra Turchia e Iraq si nascondono i loro accampamenti: in ogni avamposto sono riunite decine di giovani donne, e nonostante imbraccino fucili i lori volti non sembrano mostrare dolore, né orrore. La loro lotta va al di là della guerra, ciò per cui lottano è “la libertà dell’anima e della bellezza”. Gulîstan, Land of Roses, primo film della regista curdo-canadese Zaynê Akyol, presentato in anteprima mondiale al festival Visions du Réel di Nyon, è un’opera di raro impegno, non soltanto per il sostegno alla causa delle donne del PKK ma soprattutto per il gesto filmico che mette in atto, ristabilendo la gerarchia degli elementi nella rappresentazione della guerra: i tempi, gli spazi, il respiro, i corpi. L’autrice sa che soprattutto sul rapporto tra corpi – quello di chi filma e quello di chi è filmato – si gioca la riuscita del film, e per questa ragione decide di operare a carte scoperte fin dalla prima inquadratura. Si svela il volto di Sodzar, una donna dallo sguardo e dal sorriso intenso, che assumerà il ruolo di guida nel racconto. Akyol la invita a guardare in camera; Sodzar svela la propria insicurezza riformulando la domanda: “Posso guardare in camera?”. “Sì, tu puoi – risponde la regista – La camera sono io”.

È su questa fragilità che si fonda la forza di Gulîstan: l’unica maniera di far fronte al sensazionalismo dei mass media – barbarie ulteriore che si aggiunge a quella già messa in atto dal Daesh e alleati nella regione – sta nel ribaltare i rapporti rispetto alla camera e ai tempi di ripresa. La regia documentaria ritorna a essere, come direbbe Comolli, “fatto condiviso, una relazione”; la durata delle inquadrature lascia scoprire l’attesa, il respiro. Chiunque negli ultimi anni abbia letto i giornali, cartacei o online, ricorda gli innumerevoli reportage dedicati alle guerrigliere curde impegnate nella lotta contro il Califfato. Tuttavia la maniera di mostrare l’immagine fiera di queste donne, coraggioso contraltare di bellezza al mostro oscuro, animale e maschile dell’integralismo islamico, non si sottrae al paradigma dominante con cui i mass-media costruiscono la figura femminile come oggetto, ancor di più in questo caso rendendolo un significante svuotato dal valore della lotta in cui esse sono coinvolte. Zaynê Akyol è una cineasta che accoglie invece la messa in scena delle guerrigliere del Pkk, rispettandone l’afflato libertario e, in un certo senso, pedagogico, rivolto non soltanto alle donne del Kurdistan ma a quelle di tutto il mondo. Il gesto è programmatico, capace di render conto della spinta rivoluzionaria anche in momenti apparentemente innocui, quali la conversazione di fronte a un focolare, l’assemblaggio dei fucili, il confronto con i compagni maschi o il lavaggio dei capelli con le foglie di ortica prima di abbandonare le montagne e avvicinarsi sul fronte.

Man mano che ci si avvicina alle trincee il film subisce la cesura più netta. Alla messa in scena condivisa portata avanti nell’accampamento si oppone un confronto diretto con il nemico. Il Daesh è a poche centinaia di metri da noi, e il posizionamento cambia: in trincea compare di nuovo Sodzar, ma questa volta non più frontalmente, bensì al nostro fianco. La notte si insinua nell’inquadratura, luci confuse all’orizzonte segnalano gli spostamenti degli uomini del califfato: il tele-obiettivo si affianca ai binocoli delle guerrigliere, marcando il limite invalicabile del nostro sguardo. Forse per la prima volta nella storia del cinema documentario siamo partecipi dei discorsi che riempiono il silenzio delle ore trascorse in trincea, le attese infinite della notte in mezzo al deserto. Sodzar si rivolge premurosamente alla camera: “Forse è pericoloso che tu stia qui”. Quando comincia la battaglia, la guerrigliera guarda nuovamente in macchina: sembra dare il suo commiato alla cineasta, ma lo sguardo è mobile, scansa l’obiettivo per ricercare gli occhi di chi filma, intercettando quindi anche lo sguardo dello spettatore. Si assiste a un tenero saluto tra due donne, con l’augurio di rincontrarsi in un Kurdistan libero e in un mondo migliore.

Nell’epoca dei droni, narratori onniscienti privi di corpo del nostro decennio, Zaynê Akyol ci riporta con i piedi saldamente al suolo, in un angolo di terra dove si tessono rapporti umani ancora capaci di cambiare il mondo.