Ciò che ammiro in particolare nei film di Dreyer che ho potuto vedere o rivedere in questi ultimi anni è la loro ferocia nei confronti del mondo borghese: della sua giustizia (Il Presidente, che è anche una delle più sorprendenti costruzioni narrative che conosca e uno dei film più griffithiani, dunque anche uno dei più belli), della sua vanità (sentimenti e ambienti: Michael), della sua intolleranza (Dies Irae: stupefacente per la sua violenza, e per dialettica), della sua angelica ipocrisia («È morta…Non è più qui. È in cielo…», dice il padre in Ordet, e il figlio risponde: «Sì, ma io ho amato anche il suo corpo…») e del suo puritanesimo (Gertrud, per questo così ben accolto dai parigini degli Champs-Elysées)[1].

D’altra parte Vampyr («Qui non c’è bambino né cane») rimane per me, dal giorno, tredici anni fa, in cui l’ho visto a rue d’Ulm[2], il più sonoro dei film. E nel 1933 Dreyer lanciava questo appello che, salvo Amico e Bertolucci, i cineasti italiani di oggi farebbero bene ad ascoltare finalmente: «…se ci si sforza di creare un spazio realistico, bisogna fare lo stesso col suono. Mentre scrivo queste righe, sento in lontananza delle campane che suonano, percepisco il rimbombo dell’ascensore, il tintinnio lontano di un tram, l’orologio del municipio, una porta che sbatte…Tutti questi suoni esisterebbero anche se i muri della mia stanza, invece di vedere un uomo al lavoro, fossero testimoni di una scena commovente o drammatica, in contrappunto alla quale essi avrebbero forse perfino un valore simbolico. È giusto allora sopprimerli? (…) Nel vero cinema parlato, la dizione autentica sarà – parallelamente al volto senza trucco in una stanza autentica – la parola comune e quotidiana così come viene pronunciata dagli uomini comuni»[3].

E adesso che tanti giovani autori non sognano che di imporre nei loro film le loro idee e le loro piccole riflessioni, di sedurre e di violentare (brechtismo da padroni o utilizzazione dei metodi pubblicitari e di propaganda della società capitalistica), oppure di sparire (collages, ecc.), ascoltiamo Dreyer: «Lo scrittore danese Johannes V. Jansen definisce l’arte come “una forma interpretata dallo spirito”, definizione che mi sembra perfetta. Chesterfield vede nello stile “il rivestimento dei pensieri”, altra definizione semplice e precisa, purché il rivestimento non si faccia troppo notare. Ciò che caratterizza il buono stile, esso stesso semplice e preciso, è che deve entrare col contenuto in una combinazione così intima da fare sintesi. Se è troppo intraprendente e tenta di attirare l’attenzione cessa di essere stile per diventare piuttosto manierismo (…).

«Lo stile di un film, se è un’opera d’arte, è il prodotto di un gran numero di componenti, come il gioco del ritmo e dell’inquadratura, i rapporti d’intensità delle superfici colorate, l’interazione della luce e dell’ombra, lo scorrimento misurato della macchina da presa. Tutte queste cose, unite alla concezione che il regista ha della sua materia, decidono del suo stile.

«(…) Non disistimo neppure la squadra tecnica, operatori, tecnici del colore, scenografi, ecc.; ma all’interno di questa collettività il regista deve restare il motore dell’ispirazione, l’uomo dietro l’opera che ci fa ascoltare le parole dello scrittore, che fa scaturire sentimenti e passioni, per commuoverci e toccarci.

«(…) Ecco come concepisco l’importanza del regista e la sua responsabilità.

«(…) mostrare che esiste al mondo, aldilà del naturalismo smorto e noioso, il mondo dell’immaginazione. È certo che la trasformazione deve farsi senza che il regista perda il controllo sul mondo della realtà. La sua realtà rimodellata deve sempre restare qualcosa che il pubblico possa riconoscere e alla quale possa credere. È importante che le prime tappe verso l’astrazione siano superate con tatto e discrezione. Non bisogna sconcertare la gente ma guidarla dolcemente verso nuove strade»[4].

Ogni soggetto implica una certa via (voce?). È a questo che bisogna fare attenzione. E bisogna trovare il modo di esprimere quante più vie (voci?)[5] è possibile. È molto pericoloso limitarsi a una certa forma, a un certo stile. (…) Una cosa che ho veramente cercato di fare è trovare uno stile che sia valido per un solo film, per quell’ambiente, quell’azione,  quel personaggio, quel soggetto».

«Al cinema non si può recitare il ruolo di un ebreo, bisogna esserlo»[6].

Che Dreyer non abbia alla fine potuto realizzare un film a colori (ci pensava da più di vent’anni) né il suo film sul Cristo (sublime rivolta contro lo Stato e le origini dell’antisemitismo) ci ricorda che viviamo in una società che non vale un peto di rana.

(Féroce, in Cahiers du Cinéma, n.207, dicembre 1968; comparso in Adriano Aprà (a cura di), Testi cinematografici, Editori Riuniti, Roma, 1992)


[1] Il film venne presentato in anteprima mondiale il 18 dicembre 1964 a Parigi, con accoglienza a dir poco tiepida (n.d.c.)

[2] A Parigi, dove aveva sede fino ai primi anni sessanta la Cinémathèque Française di Henri Langlois (n.d.c.)

[3] Da Il vero cinema parlato, 1933 (n.d.c.)

[4] Da Immaginazione e colore, 1955 (n.d.c.)

[5] Giochi intraducibili fra parole che in francese si pronunciano alla stessa maniera; voie, voies/voix. Peraltro, nell’intervista da cui è tratto questo testo, Entre ciel et terre, in Cahiers du Cinéma, n.170, settembre 1965, si legge solo voix (n.d.c.)

[6] Da Il vero cinema parlato, 1933 (n.d.c.)