Nel suo Julieta, in concorso a Cannes, Pedro Almodóvar economizza sul suo stile barocco per raccontare una storia molto lineare. La cinquantenne Julieta sta per lasciare la Spagna alla volta del Portogallo in compagnia del compagno. L’incontro casuale con un’amica della figlia Antia la spinge a restare e a raccontare la sua vita in una lettera. La lettera è indirizzata proprio ad Antia, che da anni ha interrotto ogni rapporto con la madre. L’espediente letterario offre il pretesto per far sì che quello che si apre come un mistero diventi in realtà un lungo flashback, nel quale l’attrice Emma Suarez “ringiovanisce” prendendo il volto di Adriana Ugarte. La scrittura è quindi non solo il legame con i tre racconti selezionati dal libro In fuga di Alice Munro a cui il regista si è ispirato, ma anche l’occasione per rileggere il proprio passato cercando di cogliere il filo rosso che lega gli eventi di una vita.

Il passato che vediamo messo in scena è filmato come il presente, con la tipica fotografia vivida e kitsch a cui ci ha abituati il regista andaluso, a dimostrazione di quanto i ricordi siano ancora attuali per la protagonista: lungi dall’essere rielaborato o concluso, il passato è anzi ancora drammaticamente efficace sulla realtà di Julieta. La vicenda infatti è quella di una storia d’amore nata in una notte infausta, in cui Julieta incontra il pescatore Xoan su un treno sotto il quale si getta un passeggero che aveva tentato un approccio con lei. È questo il peccato originale che come un destino continua a segnare l’esistenza dell’impotente Julieta, legata alla tragedia anche dalla sua professione di insegnante di greco al liceo. Così non potrà evitare di sentirsi responsabile anche quando il marito perderà la vita in mare in seguito a un litigio. A rimarcare questo senso di colpa sarà la figlia Antia, che dopo essere stata vicino alla madre nella depressione del lutto, taglierà ogni contatto con lei appena raggiunta la maggiore età. Ma il presagio di morte che accompagna Julieta è lo stesso sotto il quale è stata concepita Antia proprio in quella notte sul treno, e così le colpe delle madri ricadono sulle figlie: per questo anche Antia tornerà a farsi viva con Julieta dopo l’annegamento di uno dei suoi figli. Il presagio di morte è quindi il filo rosso di cui Julieta è alla ricerca, e che si rivela essere un destino, vale a dire qualcosa di indipendente dalle scelte individuali. Un destino che non si può modificare, ma che può forse diventare il pretesto per ricucire il legame tra i superstiti di questo viaggio drammatico in cui il treno della notte in cui tutto ha inizio diventa una metafora della vita.

Il regista torna quindi ai suoi temi prediletti: in primis lo scorrere del tempo al quale non si può sfuggire, la necessità di fare i conti con un passato che se rimosso continua ad infestare il presente, e viceversa il presente come retroagente sul passato e la sua rielaborazione. L’altro grande tema è quello del rapporto tra donne, il legame materno e i processi di identificazione di genere, al quale Almodóvar si riconferma uno dei registi più attenti e sensibili.

Purtroppo però stavolta la narrazione difetta degli intrecci sofisticati e delle svolte narrative emozionanti che erano un marchio del regista e la messa in scena fa rimpiangere la verve e la vibrante e divertita volgarità dei film passati, forse a causa di un’eccessiva fedeltà al soggetto non proprio. Quello che rimane del regista è un fastidioso manierismo (come l’abitudine a disseminare mal sfruttati riferimenti all’arte), inadatto a raccontare questo melodramma poco avvincente.

JULIETA, regia di Pedro Almodóvar, Spagna 2016, 99′