Che cos’è che non funziona nell’ultimo film di Paolo Virzì? Perché La pazza gioia, che fin dal titolo promette d’essere lieve ed euforico, lascia invece un’impressione di grande pesantezza? Com’è possibile che questo “trip psichedelico” (Virzì dixit), questa fuga senza meta e senza scopo di due pazienti psichiatriche (buffe e male assortite, come vuole una collaudata tradizione) si trasformi ben presto in una sequenza interminabile di trovate a effetto, sprazzi di metacinema e stiracchiati riferimenti all’attualità?

Ora, che Virzì non sia mai stato un maestro nella costruzione narrativa non è una novità. Anche nei suoi lavori migliori, l’episodio tende a prevalere sulla trama, il personaggio sull’episodio. Il suo talento si è sempre rivelato nell’ideazione di caratteri, di ritrattini, di tipi umani più o meno indimenticabili, che la struttura del racconto, senza troppe pretese, si incaricava di assecondare e a tenere insieme. Non che in tutto questo ci sia qualcosa di male, sia ben chiaro. Questo “gusto per la pienezza” – come lo definiva Alberto Pezzotta – era in fondo l’aspetto distintivo e più vitale della Commedia all’italiana, macrogenere del quale il regista è stato per lungo tempo il riconosciuto (autoproclamato?) erede.

Poi però è successo che Virzì, probabilmente stanco del ruolo, abbia finito per abbandonare la solida griglia della commedia per allargare lo sguardo altrove. Dal bozzetto all’affresco, insomma: sociologico (Tutta la vita davanti, Il capitale umano), storico-vintage (La prima cosa bella) generazionale (Tutti i santi giorni); manca il respiro, però, il passo, il ritmo del Narratore con la Maiuscola. Da questo punto di vista, benché (o forse proprio perché) sceneggiato insieme a Francesca Archibugi invece che con l’abituale Francesco Bruni, La pazza gioia sconta i difetti di tutti gli ultimi film di Virzì, nei quali la pienezza si è trasformata ormai in saturazione. Nel tentativo di superare la dimensione del “tipo”, i personaggi – a cominciare dalle protagoniste – vengono costruiti attraverso l’accumulazione ossessiva (felliniana?) di dettagli, vere e proprie sineddochi visive: il parasole di Beatrice/Valeria Bruni Tedeschi, per esempio; o, ancora più lampanti, i tatuaggi di Donatella/Micaela Ramazzotti, letteralmente “scritta” dalla testa ai piedi, come tutti i personaggi di Virzì. Non sono soltanto i personaggi a patire questo “eccesso di scrittura”: il mondo stesso in cui si muovono trabocca di indizi visivi, a cominciare dalla comunità terapeutica da cui il film prende le mosse, somma di tutto quello che ci si aspetta di trovare in un luogo del genere – nella congerie di tazebao, striscioni e  monache, si scorge persino il pupazzo di Marco Cavallo (come dire: nel caso qualche spettatore fosse distratto…).

All’ambizione “romanzesca” si affianca poi quella più “autoriale”, o più propriamente “cinefila”: di nuovo, niente di più lontano dal cinema dei Monicelli e dei Risi, che di cinefilia nemmeno volevano sentir parlare. Va detto che anche su questo versante il film non va oltre i luoghi più triti della vulgata postmoderna. Tuttavia, se le strizzate d’occhio (gli anziani aristocratici costretti ad affittare la villa “al cinema italiano”) e le citazioni sfacciate (Beatrice e Donatella come Thelma e Louise) strappano volentieri il sorriso, qualche perplessità destano le autocitazioni: perché costringere Micaela Ramazzotti a rifare per l’ennesima volta la spostata di buon cuore, come nei precedenti film del regista? Perché calcare a forza nel film il cammeo del bravo Marco Messeri, con un personaggio quasi identico al Nesi de La prima cosa bella? E ancora: perché prendere Bruni Tedeschi, peraltro efficace, e farne una versione aristocratica e un po’ più aggressiva di Margherita Buy?

Scrittura, citazionismo, ambizioni troppo alte: ecco che cosa impedisce a La pazza gioia di spiccare il volo, di essere il film che vorrebbe. Ed è un peccato, perché questa pesantezza finisce per guastare anche i momenti più felici (l’incontro sulla spiaggia fra Donatella e il figlio, una scena esemplare per misura e pathos) e le caratterizzazioni indovinate, magari protagoniste di una scena soltanto (memorabile, in questo senso, il tassista coinvolto suo malgrado nella vicenda).

Né commedia, né dramma; né bozzetto, né affresco; né classico, né postmoderno: La pazza gioia annega nella palude del né-né. Uscendo dal cinema, qualcuno ha commentato: “In fondo, è un film di cui non si può dire malissimo”. Il problema è che non se ne può dire nemmeno benissimo.

LA PAZZA GIOIA, regia di Paolo Virzì, Italia 2016, 116′