“C’ERA UNA VOLTA…”

Un camera car ci proietta tra le vie di Bangkok mentre una voce affettata recita un radiodramma che potrebbe considerarsi di rilievo diegetico, un incalzante esordio in medias res di una favola d’amore accompagnata da una musica d’arredamento. Poi ci si allontana dalle strade affollate per abbandonarsi alla lussureggiante natura thailandese, e quel sentimentalismo un po’ posticcio non trova più spazio. Una messinscena essenziale sembra dare inizio alla dolente storia di Dogfahr, venduta dal padre per 17.000 baht, il prezzo di un biglietto del bus. La donna guarda dritto in macchina, l’intervistatore (il regista?), rude, la interrompe per chiederle se conosca altre storie, reali o inventate che siano. Si sovverte una narrazione che avrebbe potuto svilupparsi secondo canoni stilistici predeterminati[1]. Lo stacco repentino sul volto di Dogfahr rende difficoltosa la sua collocazione semantica: la storia del bambino disabile[2] istruito da un’insegnante privata è forse da attribuire alla fantasia della donna o si tratta di uno spunto dell’autore? È chiaro che l’oggetto misterioso cui fa riferimento il titolo internazionale diventa innanzitutto il film in sé e, a posteriori, ogni altra opera di Apichatpong Weerasethakul, percorsa spesso dall’avvicendarsi, lungo il corso della narrazione, di associazioni che eludono il controllo tirannico della logica.

Come accade per ogni autore che meriti tale appellativo, gli esordi costituiscono al contempo approdo e punto di partenza, generano un’onda sotterranea che riaffiorerà giocoforza nelle prove successive. Ritorneranno così le sequenze all’interno delle cliniche, le prescrizioni mediche alle quali presto si affiancano i rimedi tradizionali, l’unguento con cui viene cosparso – con una certa voluttà – il corpo desquamato del protagonista di Blissfully Yours. E ritornerà l’articolazione in due blocchi narrativi, una biforcazione mai manichea, capace anzi di far coesistere la testimonianza di respiro etnografico – la coltivazione di tamarindi ne Lo zio Boonmee che si ricorda le sue vite precedenti, la trasformazione del paesaggio fluviale in Mekong Hotel, la presenza militare ricorrente in ogni suo film – e ipotesi “mitiche”, se non “sci-fi”, di rapimenti alieni, streghe dalle fattezze tigresche, vampiri e fantasmi: entità patrocinanti dell’identità nazionale, sorta di pantheon sfuggente e capriccioso per certi versi simile a quello ritratto in Himiko (1974) di Shinoda Masahiro. Una cosmogonia che si abbandona alla superstizione nella quale rischia di sprofondare la nazione, allorché le credenze religiose si mescolino con la realtà sociale e il potere politico.

UN COLPO DI DADI NON ABOLIRÀ IL CASO

Secondo le parole del regista, Mysterious Object at Noon nasce come un tentativo di resa cinematografica del gioco dei “cadaveri eccellenti”, sperimentato in seno all’ambiente surrealista che consiste nell’assemblaggio di un testo – poetico o narrativo – grazie all’apporto alternato di un gruppo di giocatori invitati a sviluppare il componimento potendo leggere soltanto l’ultima parola del contributo precedente.

«Ogni pensiero emette un tiro di dado», afferma Mallarmé. Ossia il caso è generato dal pensiero. O è forse viceversa? Come andare oltre e non liquidare questa dichiarazione? A cosa aggrapparsi se persino il pensiero, all’apparenza apportatore di ordine organico, non placasse il caos del possibile? Ordine e disordine non sono rassicuranti contrari, poiché anche il pensiero più cristallino incuba il germe dell’indeterminabile: assestamenti e terremoti ontologici sono universali e necessari.

Le infinite possibilità della narrazione mettono in discussione l’impianto filmico nella sua interezza: tre persone – forse membri della troupe? – giudicano il lavoro svolto alla stregua di un divertissement, girato senza una sceneggiatura e per questo condannato a una reticenza d’informazioni forse involontaria: «E poi, perché il bambino è disabile?», si chiedono. Ed è ancora una volta un vistoso stacco a subissare ogni spiegazione normativa, poiché la replica è affidata – in un controcampo impossibile – a un altro gruppo di partecipanti al “gioco”. Weerasethakul plasma il materiale attraverso una sapiente modulazione di fonti documentarie e fiction, microcosmo e macrocosmo, quotidianità e mito, in una struttura per certi versi reimpiegata da Miguel Gomes in Tabu e Le mille e una notte.

Parimenti l’immaginazione di coloro che prendono parte al gioco sembra sabotare ogni velleità demiurgica dell’autore: non a caso, come sottolineato da Tony Rayns, nei titoli di testa Weerasethakul non compare in qualità di regista, ma di ideatore e montatore. L’artificialità del set – al centro del suo cortometraggio The Anthem (2006) – è più volte riaffermata dalla messinscena di una versione della storia studiata a tavolino dagli attanti alla composizione in fieri di un’inquadratura, passando per la giraffa ben visibile durante l’intervista agli scolari. Di conseguenza, anche la macchina da presa – quasi volesse “incarnarsi” – è assoggettata, ma sempre consenziente, al volere dell’attante in quanto corpo vivo, nonché esposta a turbolenze che amplificano i movimenti scomposti del corpo[3] o a interpolazioni meccaniche (sgranature, calibrazione dell’obiettivo, timelapse)[4]; come accadrà ancora una volta, macroscopicamente, nel corto Mobile Men (2008), in cui la videocamera dello smartphone – forse protesi retrattile del desiderio di Weerasethakul – è obbligata a zoomare sul corpo del giovane esibizionista, per poi essere maneggiata da un altro ragazzo, senza discrimine tra lui e il regista.

Il viaggio – il cammino errabondo – della troupe, spesso vero e proprio topos del cinema iraniano (Kiarostami e Panahi) e taiwanese (Hou, Yang, Tsai) che Weerasethakul tanto ammira, è «narrativa della prosopopea», lo stridore di un corpo che «urta contro una realtà che lo respinge» e non asfittica «narrativa del paesaggio»[5], in cui il soggetto si illude di essere imperioso domatore della natura, eroe proteiforme che si adatta piegandola al contempo al proprio volere. Alla natura sorprendente, scrigno dell’inconscio collettivo thailandese, semmai ci si abbandona per sconfiggere la noia dei tempi morti del sonnacchioso primo pomeriggio e riconquistare l’infanzia, ossia tutto ciò che «rimane immutato nel corso delle generazioni»[6]: bambini che giocano a calcio (ritorneranno in Cemetery of Splendour), la loro gioia di nuotare al fiume, le loro monellerie.

Mysterious Object at Noon (Dokfa nai meuman, 2000), ed. Second Run, versione originale in thailandese, sottotitoli in inglese.


[1] L’eventualità appare quasi insita nel titolo originale del film (Dokfa nai meuman), traducibile pressappoco come “Dogfahr nelle mani del diavolo”; lo stesso nome della protagonista – che significa “Fiore del paradiso” – ne accresce la potenziale carica melodrammatica.

[2] Da una premessa narrativa simile si muove Mundane History (2009), primo lungometraggio di Anocha Suwichakornpong, affine alla poetica del suo connazionale finanche nel finale che celebra la fusione panica, la vita umana come “evento” – fragile, transitorio – inscindibile dalle sorti della natura.

[3] Emblematico in tal senso il cortometraggio Meteorites (Nimit, 2007) incluso nell’edizione Second Run.

[4] Si considerino ad esempio i corti Haiku e Cactus River.

[5] M. Leone, Dal panorama alla prosopopea: Appunti per una semiotica del corpo viaggiante, in Ocula, 3/2012, p. 3.

[6] Intervista al regista inclusa nella sopraccitata edizione.