Se il cinema è l’arte con cui culmina (e conseguentemente entra in crisi) la modernità e la televisione il medium postmoderno per eccellenza, meno nota è la categoria filosofico-storiografica con cui si tenta da alcuni anni di riflettere sull’avvento di internet, ovvero quella di meta-modernità. Il termine fa la sua comparsa nel 1975 grazie al critico letterario Mas’ud Zavarzadeh, ma è solo all’alba del 2000 che inizia a essere utilizzato per descrivere la rivoluzione apportata dal web in relazione all’esperienza della realtà. Un’esperienza del tutto nuova, da un lato, e dall’altro connessa alla sensazione di una radicale contemporaneità della storia (e di conseguenza di una perdita della storicità e della linearità del tempo) consentitaci dall’accessibilità in sincrono della rete. Per questo motivo la metamodernità si configura non più in termini di un superamento, come il prefisso post- lasciava intendere nel postmoderno, bensì come un passaggio trasversale, spaziale più che temporale. Il passaggio da “profondità di campo” a “superficie”, per usare una metafora cinematografica, è un movimento già inscritto nel postmoderno. La meta-modernità compie il passaggio successivo: include anche il postmoderno e se stessa nel “passato” a disposizione. Non a caso il dibattito sul tema mette in luce una coesistenza, nella contemporaneità, di elementi tipicamente postmoderni e altri ascrivibili a una fase precedente. La metamodernità ha ovviamente un impatto sulla costruzione del soggetto e la sua Weltanschauung, descritta dai teorici Vermeulen e den Akker anch’essa in termini oscillatori e ossimorici come “informed naivity” o “pragmatic idealism”: si tratta di caratteri che esibiscono una dialettica interna, sincronica e non diacronica. Se la metamodernità recupera quindi dalla fase moderna il concetto di dialettica, la intende però in una dimensione ancora più radicalmente post-moderna, ovvero antistorica, basata cioè su una coesistenza schizofrenica e insuperabile. Una dialettica antimaterialista, sfiduciata sulla possibilità di giungere a una sintesi, a una conciliazione. Questa rinuncia alla totalità però non si accompagna più, come accadeva nel postmoderno, a un rassicurante senso di superiorità basato sull’ironia e sul distacco, quanto piuttosto a una ricerca, a volte nostalgica e a volte pionieristica, di nuove forme di fiducia – o di fede.

Riprenderemo più avanti il discorso sulle cause e le conseguenze di questa inedita e complessa sensibilità, per ora basti questa introduzione per dare una sommaria spiegazione della sostanziale convivenza, nel nostro quotidiano di spettatori, di tre schermi distinti ma inevitabilmente connessi: quello cinematografico, quello televisivo e quello del computer. A questi tre schermi “ideali” sono legate più che altro tre diverse tipologie di fruizione, soprattutto perché sempre più spesso lo schermo fisico sul quale facciamo indifferentemente uso di film, serie o filmati brevi è l’ultimo dei tre. Non interessa, in questa sede, fare un’ontologia dei tre “schermi”, quanto piuttosto indagare in che modo il tipo di esperienza audiovisiva legata a ciascuno di essi trovi un suo specifico nella rappresentazione del sesso. In una seconda fase si tratterà di capire se e come il nostro rapporto con il sesso sia modificato da questa sorta di Aufhebung mediatica.

1. Cinema e corpi de-erotizzati

Come è stato osservato, in concomitanza con la prepotente pornificazione dell’immaginario che è coincisa con l’avvento del sesso sul web, lo schermo cinematografico si è “raffreddato”. Il sesso, primo grande mezzo per fare cassetta, e anche concrezione tangibile e inevitabile dell’esperienza cinematografica tutta, basata infatti sul desiderio erotico di vedere – la famigerata pulsione scopica che spingeva ancora ai tempi del pre-cinema lo spettatore ad avvicinarsi ai binocoli degli stereoscopi (non a caso spesso raffiguranti interni con donnine discinte) è diventato paradossalmente invisibile nel cinema commerciale. I corpi, sempre prestanti, performanti e ipersessualizzati, sono diventati immagine: spesso gonfiati, modificati chirurgicamente per rasentare la perfezione, secondo una tendenza che predilige il senso della vista a quello del tatto, hanno perso la loro caratteristica autenticamente umana e corporea. Hanno perso il grottesco, l’aspetto concavo e non superficiale che li rende vulnerabili. Proprio questa vulnerabilità, osservava Bachtin, è ciò che da sempre la nostra società cerca di nascondere, confinare nel privato o esorcizzare nel comico. È qui che risiede in parte la differenza, o per meglio dire l’antitesi, tra pornografia ed erotismo secondo Baudrillard: la società del simulacro, in cui le immagini non rimandano più alla realtà che un tempo rappresentavano, ma creano direttamente una realtà autonoma e più reale del reale, non può più essere erotica, basata cioè su uno scarto. Ne ha scritto di recente Pietro Bianchi parlando di The Neon Demon: la modella, sinonimo e simbolo di perfezione, non può che essere asessuata, perché il desiderio è un movimento che parte dalla presa d’atto di una mancanza. Il rapporto sessuale è qualcosa che avviene tra corpi, non tra immagini. Per questo i super-uomini di Hollywood non possono più averne. Persino il sesso idilliaco e illusorio delle tipiche scene erotiche dei decenni passati – in cui l’orgasmo era raggiunto in sincrono e seduta-stante, ma che svelavano tuttavia (simulato o non) il sudore, il contrarsi del volto – indizi rivelatori della fragilità dei corpi –, risulta impensabile nell’universo della CGI (Computer-Generated Imagery).

Esistono varie e notevoli eccezioni, è vero. Per ragioni soprattutto produttive e di mercato, si trovano soprattutto nel cinema europeo o in quello americano (più o meno) indipendente. Anche in questo caso, però, si osserva una dinamica relativamente nuova: i film che hanno messo al centro il sesso (giocando ancora, ciascuno a suo modo, la carta dello scandalo) sono più che altro delle trattazioni teoriche, dei film-saggio sull’argomento, che raramente offrono scene erotiche degne di questo nome, né tantomeno materiale masturbatorio di sorta. Si tratta di film che “tagliano” del tutto l’atto sessuale (pur parlando della vita di una sex worker, come nel caso di The Girlfriend Experience di Steven Soderbergh, o di stupro, come in Elle di Paul Verhoeven), oppure “mostrano” moltissimo, spesso tutto (si pensi a Love di Gaspar Noé), riprendendo dalla pornografia la necessità realistica di far vedere il rapporto sessuale nelle sue varie forme senza allusioni (seppur con qualche simulazione come nel caso delle protesi vaginali impiegate da von Trier a tutela degli attori in Nymphomaniac), ma che tuttavia non mirano all’eccitazione dello spettatore, e richiedono invece un certo distacco, l’inserimento cioè del rapporto sessuale all’interno di una riflessione che sembra implicare che per parlare di sesso sia necessario farlo da fuori, assumere una posizione intellettualistica, perché il vortice del desiderio e del godimento appaiono come una minaccia alla possibilità di capire (il moralista Shame di Steve McQueen ne è l’esempio più lampante). Non stupisce allora che film “espliciti” che ambiscono invece a titillare l’immaginazione degli spettatori siano riservati a quella nicchia che, stando alle statistiche, è meno avvezza all’utilizzo di pornografia sull’internet. Mi riferisco alle donne mature, come testimonia l’altrimenti inspiegabile successo di Cinquanta sfumature di grigio, e alle ragazzine (pre)adolescenti: è il caso di Twilight, in cui è mostrata la scena, di insolita durata per una produzione delle major, della prima notte di nozze tra l’illibata Bella e il vampiro Edward.

2.  Serialità e minoranze

Uno dei motivi più importanti che hanno fatto sì che la sensibilità comune occidentale passasse dalla sua fase postmoderna a quella meta-moderna è sicuramente l’ingresso delle minoranze non solo nella sfera del consumo, ma anche in quella della produzione di significanti. Semplificando al massimo, la “democratizzazione” offerta dal web ha effettivamente concesso a soggetti precedentemente esclusi di appropriarsi della propria voce e offrire il proprio punto di vista sul mondo e la società. In qualche modo questo avveniva già nel postmoderno, anche se spesso le minoranze erano intese come semplici nicchie di mercato a cui vendere prodotti. È stata questa esplosione di punti di vista, di esperienze e di interessi conflittuali a sancire la “fine delle grandi narrazioni”, secondo la famosa definizione di Lyotard. Ma se il postmoderno coincideva con una visione ottimistica della possibilità di una convivenza pacifica sulla base di un relativismo un po’ naif, oggi, nella teoria i postcolonial e gender studies e nella pratica il riacutizzarsi di spinte nazionaliste e religiose hanno dimostrato ampiamente come l’umanesimo occidentale sia un paradigma etnocentrico non sempre facilmente “esportabile”. Si osserva in risposta, specie nei movimenti, un ritorno a posizioni teoriche che non mettono più al centro il soggetto (neanche quello ibrido, mai concluso, fluido e anti-identitario del post-strutturalismo), quanto piuttosto la richiesta forte di un’identità, la necessità cioè di identificarsi all’interno di una categoria identitaria. Questa categoria, nella metamodernità, non è più la classe sociale: nell’Occidente che si autorappresenta come una grande classe media –soprattutto nei termini di quello che Bordieu ha chiamato il capitale culturale – la categoria nella quale identificarsi si basa sui criteri di età, di razza o di genere. Se si prende il femminismo come modello paradigmatico di questo tipo di identificazione si comprende come si sia approdati alla richiesta di riconoscimento tipica delle identity politics: mentre in una fase moderna il soggetto era costretto ad adeguarsi al sistema, pena la propria alienazione, le ondate critiche del ’68 (con cui molti teorici fanno coincidere l’inizio della postmodernità), saldate alla lotta di classe, pretendevano e promettevano un cambiamento del sistema.

Oggi, nella metamodernità, gran parte dell’attivismo sembra non mettere più in dubbio il sistema capitalistico e “democratico”: richiede semplicemente una sua estensione garantista a categorie che se ne sentono ancora escluse. Categorie che spesso riprendono la centralità del discorso “personale” portato sul piano del “politico”, ovvero categorie basate sul genere e la sessualità. Coerentemente con quanto accaduto in fase postmoderna, in cui l’esplosione delle reti televisive private ha fatto sì che l’offerta sul mercato si diversificasse in base a segmenti identitari basati proprio sulle differenze di età, razza e genere, osserviamo un ricomparire prepotente della tematica sessuale proprio in quelle che possono essere considerate le eredi della televisione, vale a dire le serie TV. Anche queste vengono fruite ormai soprattutto su PC, ma ripropongono la fruizione domestica e routinaria che è sempre stata tipica della fiction televisiva nelle sue forme più embrionali, dalla soap al telefilm. Questa visione domestica (unita alla possibilità di stoppare, tornare indietro o skippare) e la necessità di fidelizzare lo spettatore consente di spiegare sia l’abbondante uso di scene esplicite e apertamente erotiche che costellano serie come Homeland, Mad Men, True Detective o Game of Thrones, ma soprattutto il fiorire di serie che fanno delle scene di sesso uno dei lori marchi “autoriali” e, soprattutto, il cuore della propria narrazione. Esempi di questo tipo sono The Girlfriend Experience, Girls, Masters of Sex, Orange is the New Black, Looking, o Transparent. Le scene erotiche in questo caso sono tutt’altro che accessorie, e invece parte fondamentale della narrazione, talvolta erotiche proprio nel loro essere poco patinate e molto realistiche: mettono in scena imbarazzi, imperfezioni, disagi e incomunicabilità, pur senza negare il coinvolgimento (o direttamente il godimento) erotico dello spettatore. Il pur breve elenco offerto qui sopra, e con tutte le necessarie distinzioni del caso, annovera serie che esprimono un punto di vista di genere. A questo corrisponde quindi una “democratizzazione” dell’esperienza sessuale. Siamo lontanissimi dalla sensazione del coronamento dell’ideale erotico-romantico della scena a luci rosse dei film degli anni ’80: ogni esperienza si rivela diversa. In una sola serie, ma anche spesso in una singola scena, il sesso può essere imbarazzante, alienato, violento, tenero eccetera. Ciò che conta in questa sede è rilevare una comune volontà di raccontare la verità del sesso, una verità che non può che essere parziale, singolare, tutt’al più mediata dall’appartenenza a una categoria identitaria – necessariamente discriminata (le donne, gli omosessuali, le sex workers, i detenuti di un carcere, i transessuali eccetera).

3. Desiderio e solitudine

La pornografia, fruita ormai quasi esclusivamente sul web, va a intensificare le due tendenze che riscontriamo nella serialità televisiva. La prima è quella del realismo: a quello proprio del genere pornografico, legato cioè alla necessità di trovare una conferma visiva dell’accadimento fattuale dell’atto sessuale, si aggiunge quello della rappresentazione, sempre più volta a creare un’illusione di realtà del godimento svincolato dalle necessità produttive e performative dell’industria del porno, come dimostrato dal crescente successo di produzioni categorizzate (a torto o a ragione) come amateur, come ha scritto Giovanna Maina. La seconda tendenza è la frammentazione: l’offerta che è possibile trovare su internet, come è noto, è diversificata al punto da soddisfare non solo ogni soggetto ma addirittura ogni specifica fantasia o curiosità che il soggetto può voler soddisfare quando si trova a contatto con il tipo di fruizione più intima e individuale che gli consentono i media allo stato attuale. È proprio qui, in sede privata e in circostanze legate al proprio soddisfacimento potenzialmente più svincolato dal contesto sociale, che il soggetto si ritrova quindi più a contatto con il proprio desiderio e con il proprio inconscio.

Giunti a questo punto, si può tentare di tirare le fila del discorso sui tre schermi di partenza per chiederci cosa la metamodernità in cui viviamo comporti a livello esperienziale e soprattutto sociale; cosa ci dicano sul nostro rapporto con il sesso le tre esperienze audiovisive che quotidianamente viviamo. Per farlo è necessario uscire da una concezione deterministica della tecnologia. In Signatura rerum Giorgio Agamben spiega il concetto di paradigma. Mentre i più tradizionali ragionamenti induttivo e deduttivo partono (in modo complementare e inverso) da una premessa per arrivare a una conclusione, il paradigma mette in relazione due fenomeni su un piano parallelo, cercando di indagarne le similitudini in modo analogico e allegorico. Il paradigma, con il suo rifiuto di una relazione storica o causale data, sembra essere il modello logico più adatto a comprendere i fenomeni della metamodernità: non ha senso domandarsi se sia stato un mutamento nel nostro modo di intendere il sesso a implicare il cambiamento nella sua fruizione audiovisuale, né viceversa se le tecnologie attuali siano ciò che ha portato la società a intendere il sesso secondo la generale tendenza che cercheremo ora di riassumere e delineare. Il fatto che il cinema sia diventato in diversi modi distante dall’esperienza del godimento, il web sempre più diretto e la televisione il regno della battaglia sociale per i diritti (civili, borghesi?) delle minoranze è il paradigma che ci consente di accennare almeno una traccia per una “psicopatologia della vita quotidiana” dell’oggi. Perché a fronte di una società apparentemente liberale e sempre più affrancata dai tabù di una volta, ci troviamo davanti un soggetto che riporta tutto al suo sé privato e irrelato, che si confronta con il nocciolo del proprio desiderio in un ambito privato, non più collettivo come in sala o nel salotto domestico, dove l’incontro con le scene di sesso causava spesso un certo imbarazzo, proprio perché non mancava una certa interpellazione erotica degli spettatori.

Per questo motivo l’esperienza del godimento si fa sempre più virtuale. Di questo parla ad esempio Her di Spike Jonze, ma a raccontare quest’alienazione con le immagini è riuscito soprattutto di recente un quarto medium, il fumetto. La tecnica del perineo dei francesi Ruppert & Mulot è una parabola triste sulla ricerca del sesso perfetto (e conseguentemente del supposto Vero Amore), vissuta tutta via chat, incontri via web-cam e in sostanza nella testa del suo protagonista, un videoartista che non si accorge neanche della possibilità di incontrare davvero il corpo (e il desiderio) della sua assistente. È questa tendenza alla ricerca solipsistica dell’ideale, della perfezione dell’esperienza sessuale, à la carte secondo le proprie esigenze come accade sull’internet che ci rivela lo sbilanciamento del nostro rapporto sull’immagine piuttosto che sul corpo. Questo può farci riflettere su quanto in una società apparentemente “libera” i corpi siano ancora incatenati e sottomessi alla mente in un paradigma ancora tutto moderno e illuminista. Il sesso si fa tra corpi, non tra immagini. Le immagini, specie quelle cinematografiche, hanno spesso cercato di illuminare questo rapporto tra corpi. La visione collettiva, in sala, aveva anche questo significato. Per questo la sfida del cinema oggi potrebbe essere quella di riportare al suo interno un discorso sul desiderio. Non è stando fuori dal sesso (come sembra fare oggi il cinema) o semplicemente prendendo atto del fatto che il sesso resta prima di tutto un’esperienza individuale (“il n’ya pas de rapport sexuel”, ci ricordano Lacan e le serie tv), che possiamo capire quali siano le potenzialità di un’emancipazione collettiva che il sesso può e deve ancora avere.