Salutato da Vincent Dieutre come un’opera che l’ha reso «fiero di essere francese», il film di Nathan Nicholovitch è scosso da un’irruenza proteiforme, la quale si manifesta sia nelle sequenze più nevrasteniche e impietose – in bilico tra la cristologia di Abel Ferrara (su tutte la sequenza della “danza macabra”) e Cyclo (1995) di Tran Anh Hung – sia nei momenti lirici, concentrati soprattutto nella seconda metà del film. Parlare di De l’ombre il y a – presentato in anteprima nazionale e vincitore nella sezione lungometraggi al Sicilia Queer Filmfest – porta al contempo all’esaltazione consustanziale dei suoi pregi e della sua disforia fondante. I difetti si trasformano in fieri in punti di forza, molto prima che la logica ermeneutica subentri per emettere un giudizio. Pare quindi che Dieutre abbia visto giusto nel ritenere De l’ombre il y a un lavoro che sancisce la nascita di un cineasta.

Sia sul piano narrativo che stilistico, come anticipato, il film si articola in due blocchi: così la realtà sordida entro la quale è calata il protagonista – Ben, quarantacinquenne che di notte diventa Mirinda e lavora come prostituto in un locale di Phnom Penh – è scalfita dal fulgore, vitale e funereo allo stesso tempo, emanato dallo sguardo di Panna Nat, una bambina venduta dai genitori e già annichilita nel suo ruolo di gingillo sessuale. Il montaggio secco della prima parte indugia su episodi della vita del protagonista – non ultimo quello della visita medica in cui raccoglie informazioni per un futuro intervento di chirurgia estetica – in cui la ricerca della libertà e la coercizione abietta, imposta dal denaro e dalla droga, si susseguono cancellando pressoché ogni distanza tra corpo reale e immagine “pubblica”. Come un eroe mishimiano intrappolato in un corpo che gli appare inadeguato, per nulla fedele alla sua anima, l’uomo vive in una stamberga, impregnata di un torpore laido – lo stesso che avvolge la Cambogia odierna, ancora afflitta dai crimini perpetrati dai Khmer Rossi – con il proprio compagno, alle cui premure risponde con apparente anaffettività. Con una precisione forse artificiosa ma che non rinuncia al rigore, l’improvvisa scomparsa del compagno corrisponde all’arrivo della bambina e al sentito risveglio di Ben. La cura, a tratti frivola, della sua immagine da travestito, tende a venir meno proprio mentre subentra un sentimento paterno che non sa come gestire: il viaggio attraverso il paese alla ricerca dei genitori della bambina è spesso affrontato senza parrucca e orpelli, perché, forse per la prima volta nella sua vita, accetta di mettersi a nudo nel tentativo di comprendere il dramma vissuto da Panna Nat. Allo stesso modo, la sequenza in cui l’amica di Ben canta una canzone malinconica sembra confermare e confutare questa tesi: se si rimane sempre se stessi a che scopo cambiare il proprio corpo? Chi è il vero Ben, la prostituta en travesti o lo scheletrico uomo pelato che, sempre più di frequente, occupa lo schermo dopo l’irruzione della bambina? È così importante trovare una risposta?

Il film possiede un equilibrio in cui la sozzura degli occidentali alla ricerca di trasgressione – spesso camuffata da un falso impegno sociale – e gli orrori del passato storico della nazione paiono esacerbarsi sul corpo della bambina, anagraficamente estranea al periodo della dittatura di Pol Pot. L’occhio occidentale di Nicholovitch riesce a non rimanere impastoiato nel “western gaze” né ad aumentare il peso del “white man’s burden” sino al parossismo, pornograficamente affettato al fine di recare sollievo all’animo degli europei inquieti che, dopo avere consumato il film, tornano a erigere muri, nascondere lo sporco sotto il tappeto e contaminare gli ultimi luoghi (geografici, dell’anima) incontaminati. Il senso tragico della storia cambogiana – ritornato nel cinema americano dello scorso decennio in City of Ghosts (2002) – è qui spogliato da ogni innesto hard boiled e dalla facile conclusione secondo cui l’ideale, una volta incarnato, perisca. Al contrario, il regista crede nel mondo e nella sua anima e per questo inventa una distanza per rappresentare il trauma, aggrappandosi alle sorti individuali per suggerire quelle delle collettività, attraverso un pretesto narrativo che ne opacizza i contorni – un po’ come avveniva in Niente da nascondere (Caché, 2005). De l’ombre il y a porta avanti una riflessione intermittente, lacunosa sulla “sospensione dell’Occidente” – al centro di Batguano (2014) del brasiliano Tavinho Teixeira, altro film in concorso – senza rinunciare a sprazzi di vaporosa leggerezza, come nel caso della lezione di nuoto all’asciutto che lambisce le vette della poesia clownesca de L’estate di Kikujiro (1999). De la lumière il y a.