The necessary beauty in life is in giving yourself to it completely.

Only later will it clarify itself and become coherent

Slacker (R. Linklater, 1991)

Per capire che quanto viene raccontato in Tutti vogliono qualcosa ha poco a che vedere con l’esperienza che vivremo guardandolo, è sufficiente l’inizio, sottilmente inconsueto. La cornice più convenzionale che si possa immaginare – un ragazzo arriva al college con i dischi della sua cameretta, conoscerà nuove persone e le sue certezze saranno smentite – collide fortemente con la maniera in cui Richard Linklater sceglie di raccontare il percorso di Jake. La prima sequenza è già una sorta di caccia al tesoro, in cui Jake trova i suoi compagni di viaggio seguendo un filo: la canna dell’acqua che conduce in giardino prima, e il cavo del telefono poco dopo. Un elemento, quello del filo, che, al di là delle ovvie risonanze mitologiche, dice molto bene della costruzione anomala di questo film rispetto al tradizionale coming of age.

La prima metà della narrazione si sviluppa come ingresso e integrazione di Jake nel nuovo mondo: un processo che, a differenza dei prodromi del genere, non conosce trauma o crisi. Proprio come se continuasse a seguire un filo, per arrivare a scoprire cosa si celi al capo opposto, il ragazzo si accoda placidamente ai compagni alla scoperta della geografia del campus. Così, Tutti vogliono qualcosa può essere letto da un lato come un trattato sulle prime forme di socialità maschile, con la macchina da presa che costantemente abbandona il singolo per includere il gruppo. Le immagini d’insieme, attraverso la prossemica e il linguaggio dei corpi, colgono infatti le modalità attraverso le quali la squadra – sportiva e soprattutto umana – sopisce ogni volta le tensioni in nome di una serie di regole non scritte. Lo scontro tra anziani e matricole, ad esempio, non oltrepassa mai la soglia del gioco, con i nuovi arrivati disposti persino a subire, abbarbicati a una parete con del nastro adesivo, un bombardamento di palle da baseball, nella consapevolezza che l’integrazione e la crescita passino necessariamente dal superamento di queste prove. Dall’altro lato, invece, Linklater lavora sugli spazi del campus, mettendo in rilievo come questi eserciti giovanili prendano possesso di case, strade, automobili e locali, trasformandoli in terreni di caccia dell’altro sesso, alcove, teatri di lotta nel fango, duelli all’ultimo sangue. Come già in La vita è un sogno (Dazed and Confused, 1993), il piano ravvicinato sui personaggi lascia di frequente il posto a dolly e inquadrature dall’alto, che consentono allo spettatore di visualizzare le strategie di attacco dei protagonisti. Si pensi ad esempio al primo giro di ricognizione in automobile e all’incontro con Beverly: alternando lo sguardo sull’abitacolo della macchina alla visione a volo d’uccello sul parcheggio del campus, Linklater racconta al contempo la dimensione ludica e quella militaresca dell’“assedio” ai danni delle due giovani inquiline della 307. Si replica così quel movimento di ascesa e discesa che accompagnava le torture di La vita è un sogno, e in particolare l’attacco di Parker Posey ai danni delle giovanissime matricole nel parcheggio del liceo.

Tanto il film si distanzia dal filone sulla crescita, quanto invece Tutti vogliono qualcosa risulta perfettamente coerente con la poetica linklateriana, al punto da portarla a un livello superiore, meno autocompiaciuto e programmatico rispetto a quello di un’opera a suo modo epica come Boyhood (2014). In primo luogo, il filo di cui si faceva menzione poco sopra, altro non è se non la figurazione di quella costruzione itinerante, con la cinepresa a seguire le peregrinazioni dei personaggi, talvolta in una sorta di staffetta, che contraddistingue i film più personali di Linklater: dall’esordio di It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books (1988), fino a Slacker, per arrivare alle passeggiate di Jesse e Céline della trilogia sull’amore romantico. L’idea, cioè, che il racconto non sia altro che il vagabondaggio di un flâneur, e che solo nell’incontro casuale possa davvero accadere qualcosa. È insomma ancora vivo in Linklater quel ricordo – l’incontro con una ragazza mai più rivista – che ha ispirato la trilogia, e che proustianamente ritorna ogni volta in cui il regista/autore provi a raccontare qualcosa, sia uno spaccato impressionista sulle città europee, sia un viaggio onirico tra sogni lucidi. In Tutti vogliono qualcosa questo frammento di memoria personale non è richiamato tanto dall’incontro e dalla telefonata in split screen tra Jake e Beverly, ma soprattutto dalla patina di malinconia che pervade l’intera operazione. Benché la promozione italiana punti a farne una versione intellettuale di Porky’s, la comicità di alcune scene e situazioni non è infatti destinata a far ridere lo spettatore, ma appare come filtrata da qualcuno che stia ridendo tra sé e sé, ricordando un episodio del passato. Tra punizioni alle matricole, trivialità, feste alcoliche, derisione dei sentimenti, non c’è quasi nulla in Tutti vogliono qualcosa che non sia già stato messo in scena, e talvolta in maniera più brillante, da un teen movie degli anni Novanta e Duemila. Eppure, la riconfigurazione di questi segmenti attraverso la lente poetica di Linklater li rende qualcosa di profondamente diverso, al contempo amaro e divertente: i frammenti di un immaginario nutrito di vita vera e di vita esperita sul grande schermo, che si vuole preservare dall’oblio.

Linklater sceglie un’epoca ben precisa, a cavallo tra due decenni, ma convenzionalmente vista come la coda di uno dei due. Fino all’elezione di Ronald Reagan, gli anni ’80 sono sostanzialmente un’appendice del decennio precedente: simili i valori e le mode, con una leggera estremizzazione. Per cui l’hardcore punk dei Dead Kennedys rimpiazza il punk rock ramonesiano o l’hard rock virtuosistico e kitsch dei Van Halen si autonomina successore di AC/DC e Led Zeppelin. Come un limbo in cui sostare, consapevoli che la grande onda che sta per abbattersi sugli scogli muterà irreversibilmente il paesaggio.

La differenza profonda tra l’operazione di retromania presente in La vita è un sogno e quella di Tutti vogliono qualcosa risiede nella tenerezza e nell’affetto con cui oggi Linklater guarda ai suoi personaggi, e quindi anche a se stesso ventenne. L’omaggio non è più rivolto, come nel primo film, a un’epoca culturalmente irripetibile, bensì a una sorta di condizione esistenziale, ben diversa da quella che più di vent’anni fa il regista definiva come stanca e disimpegnata, facendosi cantore della Generazione X. Si tratta infatti di uno stato di innocenza in cui tutto è ancora in nuce e ha la forma della possibilità; una fase che, al contrario della slackness, è ricolma di energia e vitalità: fisica, sessuale, ma anche creativa e intellettuale, come dimostrano Jake e Beverly. Non è un caso, quindi, che la collocazione storica del film sia proprio l’alba degli anni Ottanta, quando le nuove generazioni potevano ancora sostare nell’illusione di avere il mondo a portata di mano, grazie alle lotte dei movimenti giovanili precedenti. Ed è per questo che Willoughby, il personaggio più struggente del film, che ha già attraversato la cortina dei trent’anni, sogna di restare in eterno a lanciare nel quadrilatero del campus, e di non smettere le sue vesti da hippie. Lì va a collocarsi l’indagine di Linklater, soffermandosi apparentemente sui codici e le convenzioni di una certa gioventù, ma in realtà giocando – ancora una volta – con il Tempo e con le sue crudeli verità. Lo sguardo di Linklater non è mai declinato al tempo presente, la sua è sempre un’osservazione à rebours, storicizzata. Senza che questo significhi necessariamente uno sguardo nostalgico verso una presunta età dell’oro. È al contrario la voce della consapevolezza a guidare il viaggio di Jake, così sorprendentemente savant rispetto alle molteplici novità che si trova ad affrontare sul suo cammino. Solo questo rende possibile il disincanto senza precedenti con cui Jake e Finn affrontano la continua metamorfosi di mode, vestiti e abitudini – una sera in discoteca, quella dopo in un locale country, quella dopo ancora a un concerto hardcore punk – osservandola dall’alto, smitizzandola e ridimensionandola come difficilmente ci si attenderebbe dal regista di School of Rock (2003).

Perché la nota malinconica in Tutti vogliono qualcosa, benché nascosta, è presente più che mai. E l’elemento autobiografico permea l’intera operazione, ma anche qui imprevedibilmente. L’alter ego del regista non è semplicemente e convenzionalmente il protagonista Jake: è semmai l’insieme dei personaggi e delle loro passioni, fatte scorrere velocemente come in una lanterna magica, a determinare la sua identità. Il sogno lucido di Waking Life è ancora vivo e rimescola sotto nuove forme le passioni che attraversano o hanno attraversato in fasi diverse il percorso di uomo e artista di Richard Linklater. La musica e il baseball, o meglio ancora l’Arte e lo Sport, Beverly e Jake, così sorprendentemente sicuri di sé su quanto stanno facendo e sul perché lo stanno facendo. Il regista ha bisogno di loro – e quindi del femminino, elemento sottovalutato del cinema di Linklater – per essere guidato in un percorso di introspezione più gioioso (e quindi più doloroso, al tempo presente) che mai.

Che cosa guardiamo, allora, quando guardiamo Tutti vogliono qualcosa? Forse il controcampo di Mason che scruta il canyon davanti a sé nel finale di Boyhood, scoprendo per la prima volta il brivido dell’ignoto. O forse la stessa indefinitezza che si nasconde dietro alla lavagna dell’aula universitaria, la prima frontiera di Jake verso l’età delle scelte.