Pur muovendosi in una continua mescolanza di influenze e di motivi che derivano loro dal contesto in cui la cultura e il cinema italiano si muovono, ci sono autori cosiddetti minori che s’aggrappano come tutti a un discorso autonomo, insofferenti di scuole, ma che in effetti non trovano quasi mai, se non a posteriori, collocazioni definite, secondo un’ambizione a una “logica d’autore” che predispone in loro quasi sempre allo squilibrio tra volontà e risposta, tra discorso individuale e influenza sugli altri.

Ci sono, ad esempio, i “cattolici”. Ma anche qui definirli e renderli come gruppo è impossibile, in pratica, per il feroce aggrapparsi di ciascuno a una sua visione del cattolicesimo e a una sua specifica proposta. Di questi, il meno significativo è Zurlini, che dopo esili e aggraziate vicende sentimentali, sempre velate da una dolcezza mesta e sconfitta, ha tentato con Seduto alla sua destra di uscire dalla tematica adolescente e di trattare grandi problemi: il Terzo Mondo, il colonialismo e le lotte di liberazione, la violenza. Ma l’occhio era in questo caso particolarmente inadatto e immaturo, e ne è sortito un pasticciaccio giovanneo, inerte plagio evangelico esaltante olocausto e sacrifizio, conversione dei ladroni alla non-violenza, etc. Tutto questo sarebbe già povero, ai tempi di Camillo Torres, se non ci fosse anche il richiamo a un Lumumba asfittico e crocifisso, santificato ed edulcorato. In provincia, un amico di Zurlini, Gianni Da Campo, ha realizzato tra il ’66-’67 e montato nel ’69 un suo filmetto a 16, Pagine chiuse, evidentemente autobiografico, su un’educazione povera e cattolica. Qui però è presente, nel chiuso mondo di un collegio di preti e nell’approccio alla religione di un figlio di contadini, un che di risentito, un rifiuto di consolazioni extraterrestri, che prometteva di più, una volta accettata la limitatezza del proposito e apprezzatane la sua coerenza, che non La ragazza di passaggio, seconda operina del Da Campo. Stavolta l’autobiografismo dell’educazione sentimentale e adolescente, davvero zurliniano, mostra tutti i rigidi confini di un intimismo senza sbocchi e senza aperture. Le sue vere pagine chiuse sono quelle della pensione veneziana in cui l’adolescente scopre la donna e la vita e la “durezza della vita” attraverso la delusione sentimentale.

Più ambiziosa, perfino troppo ambiziosa, è la Cavani, portabandiera di un impegno cattolico al passo coi tempi e con “Settegiorni”, e anzi divaricante in campi ancora più vasti e universali. Quel che interessa alla Cavani è il rapporto tra autorità e libertà, tra strutture oppressive (la chiesa, il sistema, le regole dell’umana convivenza disumanata) e presenza e testimonianza. Da Francesco d’Assisi a Galileo e Giordano Bruno, all’Antigone e al Tiresia dei Cannibali, la sua proposta si riaggancia ai temi più generali della storia passata e presente secondo modi indefiniti e sincretici di nuova religiosità, legata a una nuova rivendicazione umanistica della vita. Ma due impacci le impediscono di mettere davvero le ali: l’uso di un linguaggio banale e spettacolarizzato che scivola dal pasolinismo ai caroselli con gran zummate e tonitruante musica di Morricone, e le pretese eccessive, non controllate, che la spingono in un vicolo cieco di velleitarie conclusioni. I cannibali diluisce in vuoto ripetitivo un bellissimo spunto di partenza, senza sapergli costruire una più concreta impalcatura di fatti-idee. La prospettiva non conciliante di un mondo, il nostro, dominato da un sistema di mostri ma mai adeguatamente spiegato, offre alla rinfusa mistiche soluzioni cristo-pagano-terzomondiste sonnambulicamente non interpretate da manichini privi di ogni credibilità. Oggi, continuando a scherzare coi santi di tutti i calendari, la Cavani prepara un Milarepa e una Simone Weill.

Forse il più coerente dei registi cattolici è Ermanno Olmi, che ha la caratteristica di dividere regolarmente i suoi film in due parti; comincia, cioè, con la descrizione attenta e minuta di una realtà, di personaggi in situazioni sociali determinate: la Milano del boom e degli impiegati, la Sicilia dell’industrializzazione, e ancora la Milano dei nostri giorni (Il posto, I fidanzati, Un certo giorno). È oggi, è un oggi ben reso in cui i condizionamenti del sistema vengono fuori attraverso le storie individuali qualsiasi che ci vengono narrate. Ma si fa presto a disilludersi: la graffiante descrizione degli ingranaggi burocratici e della riduzione dell’individuo a oggetto, il rapporto dell’operaio del nord con un ambiente sociale che gli è estraneo, l’aridità del dirigente pubblicitario che vede anche le persone più vicine in funzione dei suoi affari, sono un pretesto e non il fine. Il fine è la descrizione dei sentimenti delle persone comuni, la loro solitudine che non è più risultato del sistema ma del loro modo sbagliato di viverci. Si può infatti viverlo altrimenti e bene: amando il prossimo, cercando di capirlo, riscoprendo il valore dei sentimenti. La strada dunque c’è, secondo Olmi, ma noi siamo troppo presi dal flusso disumanante degli interessi per rendercene conto. L’incidente d’auto di Un certo giorno costringe il protagonista, come già la lontananza da Milano dell’operaio de I fidanzati, a scavarsi dentro, a riflettere, a riscoprire la propria umanità per valorizzarla. La crisi è sempre salutare, l’Uomo di Olmi – che non a caso è uno dei molti allievi di Rossellini – esclude dal suo raggio d’azione e di possibilità la rivolta, la reale presa di coscienza dei meccanismi della realtà. Gli basta poco. E al regista di tanta umanità basta il generico invito a volersi più bene, tanto il mondo, padroni aiutando, per il resto va bene così com’è, e in ogni caso noi non ci possiamo far niente…

A una formazione cattolica reagisce con violenza Silvano Agosti nel suo primo film (dopo il quale ha cambiato decisamente rotta e, personalità vivacissima ma proiettata in tensioni che rischiano d’essere tutte e solo ultra-personali, ha girato un film non uscito di ben diverse e apocalittiche ambizioni). Il giardino delle delizie, quello di Bosch, è l’intrico delle repressioni cattoliche interiorizzate dal protagonista e del loro agire confuso durante il suo viaggio di nozze. Il simbolismo, la dismisura, la deformazione fantastica non riescono però a rendere né il senso della repressione né il cammino della liberazione, e cadono in un estetismo urlato e fine a se stesso, in una sterile maniera.

In altre zone Vittorio De Seta è invece lo junghiano per eccellenza del nostro cinema, anche perché per fortuna l’unico. Egli si è convertito dopo una lunga crisi personale, e dopo che Banditi a Orgosolo, logica conclusione dei bei documentari sulla Sicilia e la Sardegna sulle opere e i giorni del vecchio mondo contadino della miseria insulare, gli aveva aperto altre strade. A parer nostro, già da quel film, d’essenza flahertiana e poetica, era in ritardo sui tempi, e inadeguato, troppo “bello” per cogliere i nodi del cambiamento e la logica delle cose, lì ridotta a una sorta di fatalità inerente alle leggi della comunità sarda e del sottosviluppo e non ai rapporti tra Sardegna e Continente, e cioè all’interdipendenza di sviluppo e sottosviluppo. Restringendo l’obiettivo per andare più a fondo, restava fuori proprio quello che nel ’60 stava nascendo. Restava un giro chiuso di fatalità. Con Un uomo a metà, la sua ricerca cambia direzione: lo interessa ora il “mistero assoluto” che ci circonda, a cominciare da quello di se stesso che, appena travisato, rende in un film (esteriormente d’un formalismo anni ’20 molto leccato) che vorrebbe essere uno scavo negli abissi della psiche e dell’inconscio per scoprirvi gli archetipi eterni della umana tragedia, oltre la dilacerazione del presente. Bisogna essere junghiani per appassionarsi, e noi non lo siamo. Il suo rigore peraltro, qualità in questo caso discutibile, non è in definitiva che una forma di isolamento paranoide, significativa di quella crisi delle ideologie degli anni del benessere, rispetto alla cui disgregazione De Seta, prendendola troppo sul serio, più sul serio di tutti gli altri, sostiene un ritorno alle origini attraverso lo scavo nel proprio ego distrutto. Fino al mito, come comprenderà uno dei più validi sostenitori del film, Pasolini, che per altri versi gli è vicino quale autore di Edipo Re. Più vago e scialbo, L’invitata, che De Seta ha girato in Francia, è una esercitazione psico-accademica che ha tutto l’interesse di una lettura critica dei romanzi rosa.

Nelo Risi s’è accostato anch’egli alle insondabili profondità dell’animo umano con un gentile Diario di una schizofrenica sui cui meriti e limiti scientifici non sta a noi pronunciarci, anche se la consulenza di un noto buono a tutto mette subito sull’avviso. Delicatamente didattico, sfrenatamente sentimentale dietro l’apparente pudicizia, ha le virtù di un artigiano decoroso e pulito. Non altre. E si caratterizza infine, caratterizzando l’autore, per una operazione di introspezione mossa tra oggettivo e soggettivo, tra esterno e interiore, tra le difficoltà dell’adattamento al reale e le cadute in un mondo che non è di sogno. In Andremo in città, l’incubo è esterno e il sogno è evasione; in Ondata di calore, l’incubo è interno e colora di sé tutto il reale. Nel futuro Una stagione all’inferno sappiamo già cosa interessa al regista: l’impossibilità di adattarsi a una società disgustante. Non certo il momento della rivolta, in lui sempre assente. Finezza e decoro distinguono formalmente anche il cinema di Enzo Muzii, anche lui fermo all’analisi dei sentimenti e alla loro crisi di fronte agli impegni del mondo, in una visione fotografica e tenuamente colorata dei disagi di un intellettuale un po’ troppo antonioniano. La sua grazia formale (eleganza) non ci riguarda, ci annoia e ci è sospetta, come quella di Risi e di De Seta. Epigono incerto di un’introspezione borghese senza rabbia, dove anzi il silenzio e la compiacenza si sostituiscono alla rabbia, è infine il Siciliano de La coppia, film mediocre e sfiatato.

Il più contorto e interessante di questi analisti dell’individuo borghese è un giovane, Mingozzi, che non ha avuto successo. Passato per influenze antonioniane e per mali consigli progressisti, non ha saputo trovarsi che con uno degli episodi del suo Trio, storie di giovani allacciate fra loro, pre-’68, apparentemente sui condizionamenti e i miti cui i giovani sono sottoposti: il successo attraverso la canzone, la liberazione attraverso il sesso, i soldi.

Nella parte di Enzo, adolescente quasi moraviano, la generica tesi è però più velata e scompare, in una narrazione che scopre per piccoli tocchi il carattere di un personaggio, la sua assenza di slanci, il suo sostanziale adeguamento al “mondo com’è” attraverso il rifiuto d’intervento e la chiusura narcisistica in sé. Enzo sarà il piccolo-borghese di domani, dapprima per incapacità a uscire dall’infanzia, poi per adesione appena ironica al personaggio dell’adulto odiosamente rappresentato dal metodico e squallido impiegato dell’appartamento di fronte. La corrispondenza dei gesti, quasi un bumbamare gombrowicziano, si fa sempre più insistita, giocata da Enzo con sempre maggiore adesione. Ma più che le connotazioni sociologiche o “di classe” interessano a Mingozzi i connotati adolescenti del personaggio, che si lascia vivere, estraniandosi, sognando in una sorta di inerzia ambigua in cui non c’è posto per la rivolta, proprio perché la rivolta presuppone un qualcosa con cui scontrarsi, a cui si contrappone altro; e non ha peso neanche l’accettazione del valori della società in modo attivo e “furbo”, poiché l’aspirazione ai soldi è un pretesto, e quel che interessa Enzo, nell’incontro infine stabilito con l’adulto, è il rapporto con un sé di domani intravisto e capito nell’altro e non ancora riflettuto. L’altro va affrontato anche se se ne sa già tutto. Proprio per questo la sospensione finale (Enzo bussa, mascherato e con la pistola, alla casa dell’adulto, e quello gli chiede “Ha bisogno di me?”; Enzo sta per rispondere e non risponde) non interessa Mingozzi per la risposta possibile quanto per quello stato di non-scelta che fa del solipsismo morboso di Enzo l’indicazione di una crescita incompleta e che rischia fortemente di non completarsi, di mantenersi in una metà tutta passiva. Queste sfumature e ambiguità sono la cifra più congeniale a Mingozzi, che le ha riprese in una sceneggiatura, molto più adulta, e sul tema costante della crescita e della maturità, ma che non ha trovato un produttore, nell’immane imbecillità dei produttori italiani.

Goffredo Fofi, Il cinema italiano: servi e padroni, Feltrinelli, Milano 1971.