Esiste un cinema marginale per definizione, e che vuol essere rivoluzionario nelle forme, nei modi di narrare, nell’approccio stabilito con la macchina e lo spettatore. È fatto perlopiù da piccoli narcisi di provincia finiti nel sottobosco culturale romano; in casi più rari e interessanti da transfughi d’altre arti che cercano nel cinema sia il confronto con un mezzo diverso che una rivitalizzazione delle proprie esperienze; e più raramente, e allora è strettamente godardiano (quello della riflessione sul linguaggio come prima e sola preoccupazione), da allievi del CSC sordi alla poetica rosselliniana. In tutti i casi – la preoccupazione fondamentale sia quella di esprimersi o quella di rivoluzionare le forme – si assiste a opere di difficile o mediata comprensione, elitarie, accessibili a pochi e non sempre felici spettatori, e destinate in generale a circuiti anche questi marginali, ristrettissimi, quasi familiari e di clan. Dalla massa esplode ogni tanto il caso o l’opera davvero significativa, ma la mediocrità è legge, e più ancora è legge il velleitarismo più inconcluso e delirante, l’individualismo più sfrenato, le mitologie artistoidi più inconsulte e balorde, significative solo in quanto specchio sublimato di tentativi infinitesimali di autogiustificazione di individualità chiuse al mondo nel momento stesso in cui il feticcio macchina da presa li illude di riaccostarvisi, di fare di sé presenza, di far vita-pellicola dei propri fantasmi di rivolta.

Spesso, diversamente da quanto accade per i corrispettivi esperimenti delle avanguardie letterarie – che danno per scontati i loro punti di arrivo nelle università, nelle istituzioni, ma anche hanno dalla loro il vantaggio e svantaggio di usare mezzi di per sé, ormai, socialmente elitari, di lavorare in un laboratorio che non sperimenta per il futuro ma conclude un passato di impotenza, di sapere di che morte muoiono e di non più illudersi di nessun tipo di “rivoluzione” – rimbombano le loro piccole stanze di fraseologie rivoluzionarie, e si vedono eroici come un Che Guevara: quello, alle prese con la distruzione delle strutture della società borghese con le armi; loro, con la distruzione delle strutture linguistiche dell’arte borghese con la pellicola. Due di loro scrivono in testa a un loro film: “lavorando a questo film abbiamo verificato che qualsiasi messaggio volessimo comunicare veniva automaticamente mistificato dagli attuali codici linguistici cinematografici che tendono alla perpetuazione del sistema socio-economico a cui si collegano anche quando sembrano condannarlo e condannare le istituzioni. Il film pertanto vuole innanzitutto essere una radicale condanna e rifiuto dell’autoritarismo di tali codici linguistici” (Sava e Mancini). E altrove così giustificano il proprio lavoro: “un marxista non può rinunciare a fare cinema a favore di un’azione politica diretta, rivolta cioè solamente alle strutture, perché una vera azione politica deve interessarsi ora specialmente alle forme di coscienza”, ma aggiungono un cioè che è quello della “critica dei codici comunicativi del cinema stesso all’interno del cinema”, e considerano questo come un lavoro eminentemente politico. Parlavano da “marxisti”; c’è da immaginare i discorsi degli altri.

Un altro rivoluzionario delle forme, Leonardi, così spiega il proprio lavoro e quello di altri (della Cooperativa Cinema Indipendente, che raduna gli underground italiani): “indagare la natura delle cose come un radioestetista o un visionario, affidandosi più alla propria sensibilità o al proprio sesto senso che a obiettive ragioni espositive. Il mondo e noi siamo troppo complessi per poter essere descritti con unità di misura lineari o volumetriche. Questi film sperimentali cercano solamente di integrare o superare un’esposizione di eventi intellettualisticamente allineati e giustapposti, di per se stessi evidenti e spiegati, con un procedimento di associazione visiva più o meno libera che scatena a sua volta una analisi razionale molto più problematica…”. Si istituzionalizza la libertà d’interpretazione del mondo, di se stessi in rapporto al mondo, all’esterno di qualsiasi problema di dialogo-rapporto con qualsiasi tipo di spettatore determinato. Si distruggono i codici, con meno eroismo è vero di quello dei tardogodardiani ma con altrettanta baldanza, e si fa legge di un comodo arbitrio individuale chiamato a non rendere conto a nessuno della propria ricerca e della propria funzione. È il regno dell’individuo alle prese con se stesso, con una macchina da presa e con occasioni quali che siano. Tanto la complessità salta fuori lo stesso, è obbligatorio destino della vita, dicono. Ma alla complessità non si reagisce con la ricerca di un metodo per interpretarla o per renderla. Ci si accontenta di esprimerla. O ci si accontenta di distruggere i codici linguistici del cinema borghese (che vuol dire per loro “della borghesia”) fermandosi a questo.

L’assenza di qualsiasi preoccupazione di rapporto con la lotta alle strutture e sovrastrutture della borghesia all’interno della politica, castra e riduce qualsiasi tentativo in questa direzione a una riaffermazione di forme estetiche come una variante dell’ideologia borghese e delle sue forme; poiché si scambia l’effetto per la causa, e ci si frega della distruzione delle fondamenta, della struttura economico-sociale-culturale che porta quelle forme che si vogliono distruggere. Eppure le esperienze delle avanguardie storiche dovrebbero pur insegnare qualcosa. Ma in realtà, questi autori noi li abbiamo considerati nel loro meglio, e cioè nelle giustificazioni ideologiche che si danno per considerarsi in qualche modo rivoluzionari. In generale non sono neanche sintomatici di una crisi e di una ricerca limitate, collocabili e riducibili, ma reali, quanto piuttosto della evasione di casinari insensati, dilettanti di scarse doti. Si prenda la cooperativa, che ha mancato una buona occasione per proporre un discorso nuovo proprio perché ha escluso dal suo ambito la ricerca comune e ha avuto vita solo in quanto ciascuno permetteva e lodava il delirio del compare. La stragrande maggioranza dei suoi prodotti è priva anche di qualsiasi talento e immaginazione all’interno stesso dei loro presupposti, non sempre così ideologizzati come in Leonardi. È un flusso di immagini la cui assenza di struttura e il cui arbitrio o immediatezza che dir si voglia è in realtà sfogo di psiche incerte alla ricerca di una unità con se stessi o all’infilzata di impressioni soggettive o a poeticismi che rispuntano in dubbie analogie o commistioni. Quando una struttura nasce o s’indovina, è allora che la delusione è più grande, poiché si evidenziano i pressapochismi intellettuali-politico-culturali, mediati soltanto dagli accenni di sfogo di un sentimentalismo dolciastro (es. Se l’inconscio si ribella, di Leonardi). Tuttavia non mancano (ad esempio in Lombardi) indicazioni più adulte, embrioni di ricerca di una qualche validità espressiva e tematica, che dimostrano un’attenzione poetica un po’ desueta ma sincera e in generale un possibile uso delle sue esperienze per qualcosa che possa divenire qualcos’altro. Ma la legge è la noia, la presunzione e una tardiva neobanalità.

Due soli outsider questo cinema irregolare, marginale e “d’avanguardia” ha offerto: Bene e Schifano, nettamente opposti però quanto a interessi e verifiche. Bene è arrivato al cinema dopo un’intensa e splendida esperienza teatrale, di autore-attore-regista (con Caligola, Don Chisciotte, Amleto, Pinocchio, Arden di Feversham, Salomé, ecc., liberamente ricreati). Non si pone né si è mai posto problemi “politici”, non sa e non gli interessa sapere della lotta di classe, e sa invece assai bene di muoversi sul filo di una esperienza estrema artaudiana mediata attraverso la cultura, la vita, i riferimenti d’una formazione tipicamente italiana. Non si cura neanche di problemi di linguaggio né teorizza. Autobiografizza tutto, riconduce tutto a un sé prepotente e malato, narcisista e isterico, tragico e solipsistico. Nel rifiuto della narrazione tradizionale e nella deformazione del linguaggio piegato a proprio uso e consumo nessuno è andato oltre. Ha irritato o entusiasmato, ma non ha mai lasciato indifferenti, e soprattutto ha stabilito una connessione all’interno della propria “non-ricerca” tra la fisica corposità e sostanza del proprio io e un mondo visto attraverso il tentativo infantile di appropriarsene condizionando a sé, e le frustrazioni che da questa impossibilità derivano, in un continuo rapporto tragico-ironico, che è satira e riso dell’interiorità allo stesso tempo in cui lo scontro di quest’interiorità col mondo è reale e frustrante e il risultato è impotenza e dolore. Lega i dati di un barocchismo cattolico molto nostro con la ricerca dell'”espressione totale” e con i psichismi assai simili a quelli di Artaud, con un tipo di malattia che gli è comune. L’estremo idealismo di quest’impresa è così mediato dall’ironia per cui lascia spazio allo spettatore nel confronto della sua opera e del suo testo; proprio quando il linguaggio vuol farsi più coinvolgente e comunicante, l’esagerazione apre, egli consenziente, una via di scampo all’altro che non è lui; dà spettacolo, lo sa, concede agli altri di ridere della propria miseria, mentre insieme sostiene di aver ragione lui e che la verità è in lui e non nel pubblico. L’astoricità della sua opera è poco rimediabile, ma come negare la sua eccezionalità e la sua carica in un panorama di follie così finte e fiacche e mediocri come quello del cinema italiano?

Dietro la sua opera c’è sempre una linearità, una coerenza di cui Don Giovanni, nella sua maggiore compiutezza e chiusura, meglio illumina il senso. In Nostra Signora dei Turchi, infatti, l’autobiografismo era più immediato e caotico (la definì “tragica farsa della vita interiore – la solitudine – di un personaggio-situazione, o meglio, di una situazione che si fa personaggio”,”opera di autocontestazione”), benché ricco dei più devastanti e curiosi umori culturali di un artista che si narrava addosso un’adolescenza tipicamente piccolo-borghese-cattolica-meridionale-intellettualmente piena di chiesa, di cafoni, di mamme e madonne e mogli ugualmente ossessive, di fantasie dannunziane e verdiane; prima di diventare un adulto squallore di artista incompreso dagli altri e martoriato da se stesso in cui la visione si restringeva e i significati si disinnescavano. In Capricci, alla scoperta precedente del cinema con le sue goffaggini ma anche col suo tentativo di ordine e struttura, succedeva in più informe dialogo con la morte in cui la forma si negava e distruggeva coerentemente all’ambizione di artista. In Don Giovanni è più limpida la ricerca della revisione del mito, dell’archetipo soggiacente, oltre la contingenza della biografia e dell’aggressione. I film di Bene sono quasi muti, o appena borbottati. Le chiavi le cerchi chi vuole, sembra dire l’autore, che io me ne frego, e miro a me, comunicando al massimo un’impressione, un sentimento, un flusso d’angoscia, il panico stesso dell’autore. Ma questa diviene fuga dalla mimesi coscientemente perpetrata e, nei suoi limiti, lucida e tragica. Bene, insomma, non cerca tanto di farsi bello o interessante che di esprimere quello che abbiamo chiamato il suo panico. Don Giovanni ha un prologo e un epilogo, e ha un soggetto nell’aggiustamento del mito quale narrato da Barbey d’Aurevilly nel suo Il più bell’amore di Don Giovanni, ma riempito di immagini rapite, per allusioni che non pretendono certo al rigore e all’ordine, ad altre e varie versioni, ma soprattutto al dilemma della tentazione esercitata dalla brutta bambina religiosa sul cavaliere e ai tentativi di questi di sedurla, complice la triste madre di lei. Ora, questa bambina è essenzialmente la vita stessa e la stessa irraggiungibile e stupida purezza di essa, in cui, oltre le spiegazioni psicologiche, Bene sembra collocare il suo terrore e la sua smania dall’impossibile successo. Non solo la donna e l’ossessione dell’impotenza per un accordo e un’unità irraggiungibile, ma ben altro e di più. Attorno a questo nucleo, la stessa arte (i burattini e la retorica) o qualsiasi altro alleato per quanto demoniaco risulta all’autore inadeguato e inefficace. La bambina di d’Aurevilly si credeva ingravidata da don Giovanni per essersi seduta sulla sua sedia dopo di lui, dunque in qualche modo, benché inconcreto, finiva per esserne toccata, e don Giovanni in qualche modo accolto. Ma Bene ci sembra dare al finale un altro significato, che va oltre anche a questa misera conclusione di solitudine, e preferire “spiegarsi”, attraverso una citazione borgesiana. Fallita anche la violenza nel tentativo convulso di contatto e di possesso, la lezione è sdegnosa e precisa: la distruzione dello specchio e il rifiuto del contatto, che, dice l’odiosa misantropia di Borges, sono nemici all’uomo in quanto lo riproducono. Ma Bene si serve di Borges come di tutto il resto in modo ancora ambiguo e personale; respinto al proprio io infelice e insoddisfatto del proprio egocentrismo, la sua alterezza non è arrogante soddisfazione di monade, ma pena. La sua esclusione è sentita assai più come condanna che non come arrogante disprezzo per la vita e per gli altri.

La decifrabilità riassuntiva (parziale ma possibile) del Don Giovanni conclude un gioco via via più drammatico. La solitudine di Bene, per quanto narcisistica, è sentimento del decadimento e desiderio di annientamento. Con tutta la sua carica visionaria – ristretta ad ambiti narrativi sempre più reiterati, ossessivi, e a pittorica e musicale esaltazione dello spazio chiuso e limitato che lo mantiene in un dentro senza spiragli – Bene si distingue da altri visionari under o upperground; diversamente da un Fellini, non accetta più messaggio o ricerca di significati generali e il ricorso alla nostalgia, all’humour, al clownismo; diversamente dai newyorkesi, non cerca colla droga il terreno dell’indistinto o le dimensioni zen. È sincero fino al patetico; ma non si può che guardare a lui come a un esempio di quell’auto-distruzione cosciente che i più disastrati rampolli di una piccola borghesia sostanzialmente reazionaria si scoprono addosso in una nevrosi che l’impotenza di quella comunica loro: non credono ai suoi miti “positivi” e neppure a quelli che una certa borghesia più riformista o più lazzarona vorrebbe propinargli. Prigionieri del loro io, rifiutano d’arrabattarsi come alcuni o di lottare coscientemente come altri per uscire da quel triste guscio, e Bene è troppo cattolicamente orgoglioso per trovare nelle comuni frustrazioni lo stimolo a un’azione comune e a un dialogo, certo tragico e conflittuale, con la storia. Possiamo interpretarlo o compiangerlo, ma la sua è davvero e soltanto una strada di morte.

Quella di Mario Schifano, venuto al cinema dalla pittura, sembrava per un tempo non esserlo, nella sua trilogia, girata in poco più di un anno e comprendente Satellite, Umano non umano e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani.  Schifano è partito infatti alla ricerca di un’interpretazione attiva del reale, e si è rivolto al cinema proprio perché questa possibilità di interpretazione e resa del reale, oltre le forme tradizionali, gli pareva che il cinema potesse offrirla. I suoi lavori hanno una struttura logica, delle chiavi, una riflessione; ma la ricerca della forma altra è totalmente subordinata (almeno nel primo e nell’ultimo dei tre) all’espressione magmatica della propria autobiografia e alla confessione del proprio disagio esistenziale, delle proprie paure, e delle proprie ossessioni. La ricerca, insomma, non è lucido tentativo di una diversa forma (per una diversa armonia che solo l’extra-cinema potrà dare); è invece ancora una volta sfogo e dichiarazione d’impotenza, com’é di tanta arte che gioca solo sulla fine dell’arte, e in particolare della pittura da cui Schifano proviene. Consideriamo con minore interesse Satellite, in cui la macchina da presa assorbe le immagini della realtà frustrante e violenta dell’alienazione per lasciar baluginare la possibilità di un’altra violenza, liberatrice, ma in cui l’io dell’autore sovrappone, determina, compiace e nega tutto per sé e niente per gli altri; e Trapianto, che prospetta un personaggio e lo segue, ma nel suo rapporto con una realtà di morte e nella sua sfiduciata conclusione sulla realtà (e sull’arte). E con rispetto invece Umano non umano, giustamente sperimentale e analitico, checché la critica o l’autore ne pensino, proprio perché la presentazione quasi ossessiva di poche immagini-personaggi-situazioni lungamente e a sé stanti mostrati nasconde una precisa ricerca di un rapporto con la realtà, e un invito allo spettatore a distinguere tra realtà e non realtà e modelli positivi e negativi (anche quando ci sarebbe da discutere sui “positivi” e “negativi” di Schifano), e permette una leggibilità delle cose che i loro significati, sembra dire l’autore, li hanno, a ben guardare, scritti in faccia. Non più il caos, e non più la morte o solo la morte, ma un’ambizione di vita, e una calma descrittività di essa in cui il distacco è segno di odio e di affetto, è presenza contrapposta all’irreale violenza delle immagini e della sostanza del sistema.

Una volta tanto, la riflessione sul linguaggio lascia qualche segno: sta allo spettatore (ovviamente intellettuale) cercarlo; ma c’è, è trovabile, determinato dalla ricerca di una conciliazione col reale attraverso indicazioni dell’umano possibile. Ma anche la ricerca di Schifano, contraddittoriamente incapace di cogliere a monte della sua esperienza dell’arte i segni delle contraddizioni maggiori (e allora la contraddizione resta generica: tra umano e non umano per l’appunto, astorica, e infine asociale) e di contribuire alla loro elucidazione e al loro superamento in rapporto ad esse, non può alla fine che tornare ai timori e tremori dell’individuo (borghese, artista, individualista) sparso in un mondo di cui non sa e non vuole trovare le chiavi. Con l’inevitabile fallimento dei superamenti di questi dilemmi in un impegno politico idealizzato, nato da sensi di colpa e non da acquisizioni coscienti, e perciò stesso declinato a non durare di fronte alle prime frustrazioni e delusioni della speranza di catarsi individuale e di soluzione della colpa.

Goffredo Fofi, Il cinema italiano: servi e padroni, Feltrinelli, Milano 1971.