L’amarezza, nel dover stroncare L’effetto acquatico, è vincolata alle premesse – quelle sì, rigogliose – di un’opera irrisolta e smembrata, capitolo finale della trilogia franco-svedese avviata con Back Soon, lanciata con Queen of Montreuil e diretta dalla regista Sólveig Anspach, prematuramente scomparsa nel 2015 durante la post-produzione del film, portata a termine dai suoi collaboratori (incluso lo sceneggiatore Jean-Luc Gaget).

L’effetto acquatico, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes (dove peraltro ha ottenuto il Prix SACD), ha di certo un merito. Anspach manipola infatti la sua materia su più livelli e stringe, sin dalla prima inquadratura, un patto con i suoi pubblici: coloro i quali hanno già assorbito le tracce dei due precedenti film della trilogia e coloro che, invece, si trovano di fronte all’opera senza conoscerne le linee pregresse. È in questo elemento che risiede l’unica, mirabile, forma d’interesse che caratterizza L’effetto acquatico: chi compie l’atto della visione, si trova di fronte a un oggetto che contiene dentro di sé una valenza duplicata.

Non a caso, dunque, l’effetto straniante e lattiginoso delle due opere precedenti – nonché gli stessi personaggi – fanno capolino, a latitudini differenti e con ruoli più o meno rimpolpati. L’elaborazione del lutto da parte della protagonista di Queen of Montreuil, Agathe (Florence Loiret-Caille), in questo film non viene evocata: si intuisce la macerazione del dolore grazie all’intensità dell’attrice, agli scatti tensivi del suo corpo in relazione a quelli ammorbiditi del suo co-protagonista, Samir (Samir Guesmi), l’uomo di lei innamorato cui impartisce lezioni di nuoto. Chi ha visto, sa; chi non ha visto, si affida a quello che passa sullo schermo. Certo, qualcosa si intuisce, soprattutto quando la macchina da presa di Anspach indugia sulla straordinaria espressività della qui comprimaria Anna (Didda Jónsdóttir): le rughe che solcano il suo viso raccontano qualcosa di altro, come una necessità che tace, ma di cui è impossibile nascondere la presenza.

L’effetto acquatico, oltre i legami con il passato, non mostra più di quel che è: una commedia sentimentale e di vaga amarezza, dalle atmosfere sospese, surreali in una maniera molto trasversale e accessibile. Le situazioni d’apertura, in cui la malinconia repressa dell’insegnante Agathe si scontra nell’ambiente della piscina con l’intraprendenza corporale del gruista Samir, imprimono un alto livello di suggestione e trovano coerenza con i precedenti titoli della regista. È nelle acque silenziose dell’impianto che prende vita “l’effetto acquatico”, una sorta di raggiro sentimentale in cui si trovano intricate le diverse volontà dei due protagonisti. Anspach, con discreta abilità, li inquadra sott’acqua mentre si scoprono e si divertono: non si scoppia di originalità, ma qui almeno il film trova la sua dimensione più libera, aiutato anche da una architettura del suono ben congegnata, in cui l’alternarsi tra apnea e “ordinaria” atmosfera viene reso con efficacia.

L’opera acquatica di Anspach, però, decide di spostarsi nei territori che già tracciavano i capitoli precedenti della trilogia: quelli islandesi. È questo dirottamento di latitudini che schiude il passaggio al declino del film. Come se la regista immergesse a forza il suo contesto in una bolla troppo stretta, dove decide comunque di manovrare tutto, la brillante parte francese, ambientata a Montreuil, cede il passo a una trasferta a Reykjavík in cui succede di tutto: amnesie, incidenti domestici, un amore ancora modellato grazie all’acqua. Anche il valore degli interpreti subisce un freno: L’effetto acquatico perde la rotta e resta imbrigliato in una ripetitività di gag deboli, che fiaccano il ritmo e offrono un ritratto estremamente semplicistico dei personaggi. Se, da un lato, la presunta amnesia di Samir – che vola fino in Islanda per trovare la donna amata e inizialmente riottosa – diventa un gioco di finzione mai esplicitamente dichiarato, dall’altro Anspach, nel chiudere il cerchio della sua trilogia, perde le redini della faccenda e concentra tutte le sue risorse in uno scatto finale dal fiato cortissimo, in cui fanno capolino diversi personaggi abbozzati, buoni solo per far “cornice” o completare il collage di ricordi dei film precedenti. È un peccato, perché le premesse c’erano tutte; basta concedersi alla prima metà, in cui L’effetto acquatico è spudoratamente onesto nella sua doppia anima di capitolo e di opera autonoma. Ne sono un esempio la sequenza della piscina di sera, chiusa al pubblico ma non ai due amanti: pochi minuti in cui il silenzio si fonde a un innegabile talento visivo. Oppure l’inquadratura del cantiere al tramonto, visto dalla prospettiva di Samir: veloce e silenziosa, sembra durare una piacevole eternità.