Con The Challenge, presentato all’interno del concorso Cineasti del presente all’ultimo festival del Film Locarno, Yuri Ancarani approda al lungometraggio. E al cinema tout court, un cinema che ha sempre cercato, fin dal primo corto portato in giro per oltre 150 festival e capitolo iniziale di una trilogia sul lavoro che, in forme sempre rinnovate, ha messo in discussione la relazione tra arte installativa e spettatorialità cinematografica, tra finzionalità del dispositivo di ripresa e persistenza reale della materia filmata. Girato in Qatar, The Challenge porta a compimento un percorso quinquennale e traccia un nuovo solco entro il quale il regista ravennate si muove quasi senza rivali, almeno in ambito nazionale: la caccia al falco, simbolo di una tradizione antica e di un lusso tutto moderno, è metafora per l’inseguimento di un’idea realizzativa in grado di coniugare osservazione e andamento narrativo, ricerca formale e sperimentazione. E nel tentativo di far corrispondere la propria visione con quella di un uccello mitico e predatore, Ancarani cerca l’immagine che sveli la materia di cui sono fatti i sogni, al cinema.

Quanto tempo c’è voluto per realizzare The Challenge?

Se parliamo del tempo dedicato alle riprese, non tanto. Ma psicologicamente mi ha tenuto impegnato per tre anni, una tempo debilitante, soprattutto quando hai in testa una cosa che non riesci a fare… Per fortuna in Qatar ho trovato persone incredibilmente pacifiche e ospitali, disponibili, che però ti dedicano il tempo di un incontro, non di più. Se devi costruire qualcosa insieme a loro diventa tutto più difficile.

Come sei arrivato in Qatar? Quali erano i tuoi contatti?

L’origine di questo progetto si deve a Fabrizio Polpettini, il produttore del film. Ci siamo incontrati all’uscita di un cinema, al Pompidou – una di quelle cose un po’ magiche che ti raccontano succedere all’estero: uno che ti ferma dopo aver visto il tuo film, e ti dice “mi è piaciuto molto, perché il prossimo non lo produciamo con ARTE?”!. Quanto al Qatar, da poco ha cominciato a fare i primi investimenti nel mondo dell’arte contemporanea, mettendosi a comprare, comprare, comprare… Tieni presente che stiamo parlando di un Paese con una ricchezza enorme. Anzi: tra i Paesi più piccoli del mondo è il più ricco in relazione al numero della propria popolazione. Un posto dove chiunque può permettersi una Lamborghini e dove se uno desidera placcare la propria Harley Davidson in oro può farlo senza pensarci troppo. Inizialmente volevo fare il ritratto della vita di uno sceicco, ma nel momento in cui mi sono avvicinato a quel mondo è emersa con forza la falconeria, che è come dire il calcio per gli italiani, forse anche di più. Così siamo venuti a conoscenza della caccia tradizionale del falco, con gli sceicchi che compiono viaggi anche molto lunghi per andare a caccia dell’houbara, un uccello mitologico che non esiste più. Nel corso della ricerca, in qualche modo, l’attesa è diventata centrale, la materia stessa del film, perché sembrava non succedere niente e allo stesso tempo tutto era in movimento, in divenire…

Mi sembra che tu prediliga il momento dell’attesa, per indagarne la sua possibile rappresentazione. In fondo anche San Siro è costruito come una lunga attesa, un crescendo verso un finale che non viene mostrato.

Certo. Soprattutto mi piace che il film abbia una tensione interna, implicita, che le immagini portino altrove rispetto a ciò che rappresentano in maniera diretta. In questo caso, dico per semplificare che The Challenge è un film sulle “olimpiadi dei falchi” ma in realtà c’è molto di più e credo che il senso profondo del film risieda altrove. Forse anche perché lavoravamo a un film che voleva essere qualcos’altro e poi ci siamo accorti che quello che stavamo vivendo era il film. Ovvero: è diventato un film sulle persone che ci avrebbero dovuto condurre da altre persone, persone che non avremmo mai raggiunto. La guida ci disse subito che nel deserto non ci saremmo potuti avvicinare alle tende, non avremmo neanche potute fotografarle… che in quei posti puoi fare un tour da turista, ma niente di più. Ecco perché la scena con gli occidentali che passano in groppa a un cammello è una delle scene chiave del film: gli occidentali, i turisti si fermano lì su quella soglia. Io ero deciso ad andare oltre.

Come hai fatto a superare questa soglia?

Un grande lavoro di relazione, atto a instaurare un rapporto di fiducia reciproca che sapevo dover essere alla base di tutto. Ho vissuto a lungo con loro, ho cercato di imparare i loro usi, di condividere i loro gesti. Anche da parte loro c’era la volontà di condividere usanze e costumi, e per me è stato molto importante, perché non parlo l’inglese, né tanto meno l’arabo…

Guardando il film mi sono chiesto se l’idea di filmare il deserto ti abbia dato dei problemi o se tu l’abbia vissuta come una sfida, dal momento che tu sei abituato a filmare spazi nei quali l’architettura domina, crea delle coordinate, delle simmetrie… Il deserto può anche essere spaesante, in questo senso, no?

Anzi! Avrei voluto filmarlo di più! Ma avevo delle priorità di struttura, perché sapevo che le persone che incontravo oggi c’erano e domani non più, e questa cosa mi faceva disperare. I paesaggi, quindi, sono stati messi in secondo piano e tutti quelli che ho filmato li ho inseriti, perché sentivo che avrebbero dato un respiro importante al film. Vero che, come dici tu, lavoro molto sulle geometrie e se mi trovo davanti geometrie preesistenti esse comandano, ma in una composizione dell’immagine che può essere varia, diversa. E c’è poi un ulteriore livello geometrico sul quale mi piace lavorare: quello delle geometrie che si creano tra un’inquadratura e l’altra, qualcosa di cui magari si accorgono in pochi, come – per farti l’esempio più evidente all’interno di questo film – il passaggio dalla notte al giorno, così netto, secco.

Mi piace moltissimo l’inquadratura sui titoli di testa, densissima di simmetrie, di linee di fuga. È un’inquadratura magnetica, in questo senso: la tieni a lungo, ma la si potrebbe guardare ancora più a lungo, per via del complesso movimento che la percorre al suo interno. Di che luogo si tratta?

Si chiama “maquid”, è una struttura per ospitare i falchi quando le temperature aumentano, perché i falchi sono uccelli migratori, e un tempo li catturavano quando erano di passaggio, ma adesso che li hanno trasformati in animali “domestici” – e questa è un’altra delle peculiarità tipiche del luogo: li accarezzano, mentre un nostro falconiere ti direbbe di non farlo mai, perché a loro dà fastidio – ora, dicevo, lì tengono lì, sono i loro falchi ma hanno bisogno di volare e lì possono farlo senza fuggire.

Mi ha molto impressionato anche l’uso delle musiche, già a partire dai titoli di testa. Musiche orchestrali, da “cinema classico”. Come mai questa scelta?

Le musiche sono una follia! Credo sia stata una bella sorpresa anche per il festival (di Locarno, ndr), perché quando hanno visto il film la prima volta e hanno deciso di invitarlo nel concorso di Cineasti del presente era ancora senza musiche! Da parte mia c’era la volontà di utilizzare musica sinfonica perché si trattava del mio primo lungo… anche se lungo fino a un certo punto (70 minuti, ndr). Ma doveva essere un film e allora ho detto mettiamoci musiche da film! Avevamo dei pezzi di riferimento, Mozart soprattutto, e parlando con i musicisti, Lorenzo Senni e Francesco Fantini, abbiamo deciso di andare in questa direzione. Lorenzo è il primo italiano a essere entrato nell’etichetta Warp, quella di Aphex Twins, tanto per intenderci… e poi è di Cesena, romagnolo come me! Quanto ai titoli di testa mi divertiva l’idea di un’inquadratura fissa che non si sposta di un millimetro anche se la musica pompa e cresce di intensità. Era un po’ una sfida: quanto a lungo può rimanere ferma un’inquadratura?

Possiamo dire che hai sempre puntato al cinema, anche con i lavori precedenti. Ci tieni che i tuoi lavori siano visti in sala, no?

Io vivo grazie ai musei, perché mi permettono di realizzare i lavori che faccio. Inutile ribadire che il mondo dell’arte e quello del cinema sono completamente diversi, trovo che il mondo del cinema sia più spontaneo, più favorevole ad accettare la novità, mentre il mondo dell’arte ha bisogno di tempo e di capire quanto le cose possono durare. Il capo, il mio primo cortometraggio (2010, ndr), ha goduto della velocità e della spontaneità del cinema, andando in giro per oltre 150 festival (e continua a girare ancora adesso, alla faccia dei due anni di vita che si sostiene possa avere un corto!). Poi, dopo cinque anni, il film può avere una nuova vita grazie all’esposizione museale. Riuscire a far dialogare questi due mondi, farli congiungere, per me è ideale.

Ci sono sequenze molto particolari, nel film, come quella della notte all’accampamento, abbastanza nuova all’interno della tua produzione, ma è inevitabile chiederti qualcosa su quella finale, con la soggettiva del falco…

La soggettiva del falco è fondamentale, perché per quanto tu possa cercare di entrare nel mondo di quella gente, e sforzarti di conoscere la loro cultura, più di tanto non puoi fare e alla fine mi sono chiesto: ma il falco come vedrà tutto questo? Quindi ho cercato di mostrare anche il suo punto di vista, dove lo spettatore non sono più io, né un altro sguardo umano.

E ora? Sei già al lavoro su un nuovo progetto?

Vado due mesi in residenza all’Hammer Museum, un museo annesso alla UCLA. Poi faccio un viaggio nel Nevada per un nuovo lavoro…

Un altro deserto!

Sì, un altro deserto d’oro! O almeno lo è stato, un deserto che prima era molto ricco e adesso è povero. Parto con molto entusiasmo ma devo dire che preferisco stare in Italia… I progetti all’estero, per come lavoro io, che non mi accontento mai, sono sempre problematici…

Locarno, 2016