Come spesso nelle opere del cineasta filippino, The Woman Who Left è contestualizzato in un momento storico ben definito, enunciato proprio sui titoli di testa. È il 1997, il momento dell’handover di Hong Kong, il passaggio di sovranità dell’ex-colonia britannica alla madrepatria cinese, un evento che diventa epicentro di sconvolgimenti in tutto il Sud-est asiatico. Nelle Filippine aumenta la popolazione dei sino-filippini, che era stata particolarmente vessata durante la dittatura di Marcos, conclusasi otto anni prima, e sostituita dalla presidenza di Corazón Aquino, appartenente proprio a quell’etnia. Ma il 1997 è un anno decisamente tormentato per il paese anche a seguito di un’ondata di violenze, e soprattutto di rapimenti, che colpiscono particolarmente la comunità sino-filippina. L’anno successivo vede il ritorno in patria dello stesso Lav Diaz, dagli Stati Uniti, e la realizzazione della sua prima opera, The Criminal of Barrio Concepcion, che proprio in quel clima di brutalità era calato. Nel film si narra di un efferato criminale impunito, Serafin Geronimo, attivo proprio nei sequestri di persona, che affida le memorie a una giornalista. Quel preciso momento si rivela quindi seminale tanto come evento storico per il paese tanto come momento primigenio del cinema dell’autore.

Lav Diaz mette in risonanza una concomitanza di date nel suo penultimo lavoro, A Lullaby to the Sorrowful Mystery, che inizia proprio con un evento chiave della storia delle Filippine, l’esecuzione del patriota José Rizal nel 1896, motivo scatenante dell’insurrezione popolare che porterà all’indipendenza del paese dopo trecento anni di dominazione spagnola. È un episodio storico che torna spesso nelle narrazioni del regista, così come la rievocazione della figura di Rizal. Ma in quel frangente temporale avveniva anche un altro momento fondativo, la nascita del cinematografo che, proprio nel 1896, approdava a Manila nell’ambito del suo tour asiatico. Lav Diaz mette in scena ancora un doppio centro propulsivo, nell’ambito di un cinema che vuole abbracciare la storia patria e le sofferenze del suo paese. Il travaglio delle Filippine che, ancora una volta, si incarna nel tema della malattia, che in The Woman Who Left colpisce il personaggio del transessuale Hollanda, e che sembra propagarsi all’intero mondo. Il 1997 è un anno di lutto per l’uccisione o la scomparsa di personaggi fondamentali nell’immaginario popolare già globalizzato, Gianni Versace, Lady Diana e Madre Teresa di Calcutta. Lav Diaz si fa cantore ancora una volta di questa sofferenza del suo popolo e del mondo.

La base di The Woman Who Left è ancora una volta la letteratura russa, nella breve novella di Tolstoj, Dio vede la verità, che racconta di un mercante ingiustamente messo in carcere che viene riabilitato, dopo tanti anni, solo a seguito della confessione del vero colpevole, ma muore appena prima di riacquistare la libertà. Lav Diaz traspone la figura del protagonista Aksionov in quella di una donna, la maestra Horencia, che sconta trent’anni di prigionia per essere infine riconosciuta innocente dopo che una sua compagna di carcere proclama di essere la vera colpevole del crimine a lei fino ad allora attribuito. Il racconto di Tolstoj rappresenta solo il punto di partenza: la protagonista non muore ma parte alla ricerca del figlio e della vendetta. Siamo anche dalle parti di Dostoevskij, dell’ennesima reincarnazione di un Raskol’nikov, di un delitto senza castigo, nella filmografia del regista, a partire da Serafin Geronimo fino ad arrivare a Fabian di Norte, the End of History. In Death in the Land of Encantos era il poeta Benjamin Agusan ad esporre a un’amica un suo lungo racconto su una persona condannata ingiustamente, ispirato a una vicenda realmente accaduta e da lui definito un apologo morale di stampo dostoevskijano.

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Le opere di Lav Diaz si confermano così macrotesti dove si rincorrono cinema, letteratura, folklore e tradizioni orali. Così Horacia legge, all’inizio e alla fine di The Woman Who Left, lunghi brani dal romanzo The Power of Black. Horacia, che svolgeva il lavoro di maestra elementare prima di finire in carcere, mantiene un ruolo didattico, di narratrice interna al film, di narratrice secondaria leggendo un testo che riguarda ancora lo spirito filippino e il suo anelito alla libertà. Si tratta di un romanzo in fieri dello stesso Lav Diaz, artista poliedrico, che concepisce il film come un contenitore dove la letteratura diventa lettura scenica che diventa cinema. Un romanzo che bizzarramente è stato approcciato come testo di teorie sul cinema e poi diventato, in corso d’opera, narrativa. Cosa che rimanda al suo film Melancholia, dove lo scrittore protagonista racconta la sinossi del suo romanzo, che ha per protagonista un regista che vuole fare un documentario sulla storia del cinema filippino. Ancora la letteratura che si fa racconto orale filmato.

In The Woman Who Left abbiamo ancora un susseguirsi di momenti di lettura, di documenti scritti, ufficiali, la confessione, la declamazione dei propri diritti. E ancora un’opera di Lav Diaz arriva a inglobare il suo stesso cinema fino a ora, il riferimento al sindaco Tiburcio che rimanda alla figura di Father Tiburcio di Century of Birthing, così come la storia stessa del cinema filippino, dai tanti riferimenti a Lino Brocka e Ishmael Bernal, nelle figure dei transessuali, nella prostituzione maschile e nell’accenno ai miracoli. Ma il cinema di Lav Diaz diventa anche il luogo della decostruzione del cinema stesso. Con i personaggi che diventano attori e interpretano altri personaggi. Come nella prima parte di Melancholia, molti protagonisti di The Woman Who Left non sono quello che dovrebbero essere, Horacia avrà varie identità e assumerà vari aspetti nel corso del film, Rodrigo ammetterà di essere a sua volta un travestimento, Hollanda si camufferà di un sesso che non è il suo dalla nascita. Per arrivare ai momenti, sublimi, di spettacolo: il teatro dei transessuali davanti a un falò, o il momento di musical di Horacia e Hollanda nell’esibizione di Sunrise Sunset (dal musical Il violinista sul tetto), e West Side Story. Il celebre musical di Leonard Bernstein era peraltro richiamato in uno dei primi film del regista, West Side Avenue dove il West Side del titolo vira nella sinistra assonanza con l’accademia militare di West Point, dove era stato addestrato uno dei personaggi. E le immagini stesse, in quel bianco e nero mesmerico che rappresenta il marchio di fabbrica del regista, non sono quello che sembrano: Diaz gioca sulla loro ambiguità, sul loro assumere di significato solo al dipanarsi della narrazione, a partire dalla scena iniziale con le lavoratrici nei campi e i soldati con mitra, che si scoprirà solo in un secondo momento rappresentare i lavori forzati di detenute. Con The Woman Who Left, Lav Diaz lavora ancora una volta con le scatole cinesi dell’arte, con la metanarrazione. In un film che inizia e finisce con un “c’era una volta”.