l cinema di Davy Chou, giovane autore francese di origini cambogiane, pur nelle sue differenti traiettorie – di genere, così come stilistiche – è legato da un fil-rouge in cui la materia del sogno, del tempo e della Storia finisce per occupare un ruolo centrale.

Diamond Island (2016), il suo primo lungometraggio di fiction, presentato alla Semaine de la Critique e premiato con il SACD Award, si apre con la fuga del giovane Bora dal villaggio natio, nel tentativo di eclissarsi al tempo stesso da ciò che presente e passato rappresentano, alla ricerca di un futuro ancora indefinito: quello incarnato da Diamond Island, isola avveniristica ai margini di Phnom Penh, pronta a trasformarsi in un’enclave abitativa emula del modello capitalistico occidentale. Tra giornate passate a lavorare nei cantieri per forgiare l’isola di diamante, ragazze e motorini, le luci al neon dei luna park, l’incontro con il fratello Solei – da tempo allontanatosi dalla famiglia – Bora cerca di avvicinare a sé la promessa di una realtà forse troppo distante. I desideri di espatrio negli Stati Uniti e la speranza di una vita soltanto spiata dal buco della serratura dei cantieri, un avvenire incerto ma dimentico del passato, sono sintomi della ricerca di un’identità che sembra essere inscindibilmente legata ad un destino che non gli appartiene. La Cambogia del 2016 è il ritratto di una generazione che si muove tra l’hic et nunc di una contemporaneità aleatoria, da viversi – forse unicamente – in quanto fase transitoria verso una pagina bianca ancora da scrivere.

Un’istantanea di cui già troviamo cenni nel precedente cortometraggio Cambodia 2099 (2014): giovani alle prese con l’ossessione nei confronti di una globalizzazione a venire e che, a pochi giorni dalle elezioni politiche, indugiano titubanti tra i fantasmi della storia e il sogno di un altrove ancora informe. Un’opera che mescola coming of age e sci-fi, in cui la dimensione onirica diventa la chiave di volta per trasportarli verso la Cambogia del 2099.

Diamond Island sperimenta con i colori lasciando esplodere le potenzialità del digitale, con movimenti di macchina, immagini volontariamente artificiose e patinate, alternanza di musiche e silenzi, metamorfosi di suoni e tonalità per dar forza alla sottile linea che delimita il passaggio tra il giorno e la notte. Gli ampi spazi dell’isola in cui si muovono i protagonisti sono riempiti e segnati dalla vicinanza di corpi acerbi, da un compulsivo contatto con la tecnologia, a sottolineare il bisogno di fondersi con oggetti del desiderio ancora da scoprire ed esplorare le potenzialità di nuovi modelli di comunicazione. Più che con una sperimentazione fine a se stessa, Davy Chou gioca con la ricerca di una dimensione ludica – con l’artificialità dell’immagine, del suono, del doppiaggio, con lo split screen – che richiama, a livello visivo, la ricerca di identità tutte da plasmare, tipiche dell’età adolescenziale.

Se nel documentario Golden Slumbers (2011) Chou lavorava a uno scavo archeologico tra le memorie del suo paese d’origine nel tentativo di restituire un’ultima possibilità di sopravvivenza alle frammentate tracce del cinema cambogiano degli anni ’60 e ’70 – testimonianze di un passato andato perduto a causa di un deliberata distruzione della cultura portata avanti dal regime di Pol Pot – anche grazie a re-enactment operati da suoi coetanei, qui lo sguardo si apre a una generazione intenta a lasciarsi un pesante bagaglio – personale, storico e culturale – alle spalle per fuggire verso un domani che non lascia spazio a concrete garanzie. Ma è la Storia stessa a voler attuare un processo di rimozione: così come i Khmer Rossi decisero di chiudere i cinema distruggendo testimonianze e protagonisti in quanto simbolo di una cultura ormai votata alla degenerazione, qui una nuova classe politica – più democratica, forse, ma sicuramente più naïf nel morboso tentativo di far suo il modello occidentale – rincorre il sogno del rinnovamento nazionale, con il rischio dell’oblio del patrimonio culturale autoctono per aprirsi a una standardizzata globalizzazione perseguita nonostante forti contraddizioni sociali, ancora irrisolte.

Abbiamo incontrato Davy Chou in occasione della ventunesima edizione del Milano Film Festival – dove sono stati presentati Diamond Island, in anteprima italiana, e i suoi precedenti lavori – nel tentativo di rintracciare trait d’union e discontinuità nel suo percorso, focalizzandoci su un’opera che, per forma e genere, apre una strada nuova rispetto a quanto fatto finora, senza dimenticare di esplorare le attività collaterali – la produzione, la fondazione del collettivo di giovani studenti e autori cambogiani Kon Khmer Koun Khmer – a latere della sua attività di filmmaker.

Filmidee: Nelle tue opere si riscontra sempre una riflessione sul tempo. Mentre il passato domina Golden Slumbers, il tuo primo documentario, nel cortometraggio Cambodia 2099 e in Diamond Island questo sembra essere sostituito dal futuro, in quanto meta di fuga da una contemporaneità forse non possibile da vivere appieno. Nel tuo ultimo film i personaggi sembrano ancorati a un presente a cui non appartengono, si allontanano da un passato spettrale alla ricerca di un avvenire assolutamente indefinito.

Davy Chou: Sì, credo tu abbia ragione. C’è il tempo, il passaggio del tempo e la discontinuità tra piani temporali differenti. Tutti i film che ho girato in Cambogia sono incentrati su questo, sono un richiamo alla volontà di guardarsi indietro e sognare, contemporaneamente, di precipitarsi nel futuro. Ma chiaramente, in questa tensione tra passato e futuro, la questione stessa del presente diventa fondamentale. In Golden Slumbers volevo mantenere uno sguardo fisso sul contemporaneo, pur concentrandomi sul ricordo, per vedere cosa fosse rimasto ai nostri giorni di quel passato ormai perduto. Volevo provare a scoprire delle tracce, vedere cosa fosse possibile tirarne fuori.

Quanto a Diamond Island, fai riferimento a un passato spettrale e mi trovi assolutamente d’accordo, ma devo dire di aver provato a non pensare affatto al passato, perché il documentario precedente mi ha insegnato che tutto quello che è stato è comunque sempre presente nel momento in cui stai girando. Golden Slumbers è un film tormentato dai fantasmi della storia, e volevo che Diamond Island fosse l’opposto: un’opera ossessionata dal futuro. Ovviamente so che il passato penetrerà comunque, ma non ero intenzionato a palesarlo proprio perché frequentando i giovani cambogiani mi rendo conto che questa è esattamente la maniera in cui vivono. Probabilmente è un atteggiamento riscontrabile a livello universale, ma qui, con la storia tragica di questo paese, è come se esistesse una vera e propria linea di demarcazione tra quello che avvenuto prima e dopo i Khmer Rossi, e i giovani sono estremamente ansiosi all’idea di saltare nel futuro, senza guardarsi troppo indietro. Il film doveva riflettere esattamente il modo in cui questi si relazionano con il tempo e con la storia del proprio paese, e credo anche si possa cogliere una tensione interessante tra quello che palesemente non mostro nel film e quello che invece decido di mostrare.

Ad esempio, è interessante come l’unico momento in cui si faccia esplicitamente riferimento ai Khmer Rossi sia quando la protagonista femminile dice a Bora: “Sì, mia nonna viveva a Phnom Penh prima dei Khmer Rossi”. Un’unica menzione, assolutamente fedele a quanto osservo nella quotidianità dei giovani cambogiani: quando sono assieme, non ne parlano. Conoscendo la storia del mio paese sembra assurdo, è come se fosse un semplice “marker” temporale, qualcosa che ha segnato il passaggio da un’epoca all’altra, come “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. All’origine di Diamond Island non c’è solo lo shock e la fascinazione nell’osservare questa totale amnesia nei confronti del passato da parte dei miei coetanei, ma anche la stessa volontà politica di creare una Cambogia futuristica – come quella dell’omonima isola – che non lascia spazio a tracce storiche o culturali. Un intenzionale oblio che trovo estremamente interessante.

FI: Finora hai sempre cercato di sperimentare con stili e generi differenti, ma sono comunque presenti dei trait d’union tra i tre film, soprattutto nel lavoro sull’immagine. Come hai lavorato?

DC: Mi è difficile dire se siano del tutto differenti o meno… posso dire che non avendo frequentato alcuna scuola di cinema, prima di Golden Slumbers avevo girato soltanto un paio di cortometraggi. Ogni volta che mi capita di stare sul set, la considero davvero come una grande opportunità: avere tante persone che lavorano insieme a te per veder realizzata la tua idea sul grande schermo… cerco davvero di trarne il massimo e sperimentare con tutto quello che ho a disposizione in quel determinato momento. Ovviamente si tratta anche di fare i conti con il lato pratico, i mezzi e il budget che posso permettermi.

Per Golden Slumbers siamo riusciti a sperimentare con la macchina da presa e con le luci, ma c’erano comunque delle limitazioni, si è trattata della mia prima vera esperienza per cui mi sono mosso cautamente, passo dopo passo. Cambodia 2099 è stato invece il mio primo cortometraggio di fiction, l’ho girato in tre giorni con un gruppo di amici, è stato tutto molto improvvisato e non avevamo un grosso budget a disposizione, per cui abbiamo optato quasi unicamente per inquadrature fisse. È stata comunque un’opportunità per esplorare il mio linguaggio, pur tenendo conto di quelli che restano i miei riferimenti come filmmaker e cinefilo: in tutti e tre i film sono presenti forti influenze del cinema asiatico contemporaneo, ma non mancano richiami a quelli che considero come i registi più sperimentali all’interno del cinema mainstream americano, come Michael Mann e le sorelle Wachowski.

Onestamente, lavorare senza una grande esperienza alle spalle è stimolante e stressante al tempo stesso, perché ogni giorno sai di dover aprire una nuova pagina ancora tutta da scrivere. Per Diamond Island ho dovuto confrontarmi con cose che prima di allora non avevo mai fatto: ho lavorato con degli attori – quasi tutti amatoriali – ed instaurato un lungo processo di discussione per trovare il miglior modo di collaborare e imparare gli uni dagli altri durante le riprese, ho girato per sette settimane, tra cui la mia prima piccola scena di una rissa…era davvero tutto nuovo, per me. Ogni notte, prima di andare a dormire, pensavo alla scalata che mi aspettava il giorno successivo e alle nuove strategie su come affrontarla. Se dovessi pensare a qualcosa che accomuna realmente i tre film è sicuramente la volontà di non impormi delle regole, ma sentirmi libero di approcciare ogni scena nel modo in cui sapevo di volerla esplorare, convinto che alla fine il tutto avrebbe trovato una sua coerenza globale. Quando fai riferimento alla sperimentazione, per me significa esattamente questo: giocare con le differenti forme che ogni scena, di volta in volta, richiedeva.

FI: Altro tratto comune nella tua produzione è un continuo riferimento al sogno, ad atmosfere trasognate che stilisticamente trovano riscontro nella scelta di creare immagini fortemente artificiose, soprattutto in Diamond Island.

DC: Sicuramente. Penso sia assolutamente legato al soggetto del film, perché è una scelta che abbiamo cominciato a esplorare sin da Cambodia 2099 e sapevo che era utile all’opera che volevo girare su quell’isola. Una volta visitata Diamond Island sono stato assalito da una sensazione molto forte: ti ritrovi catapultato in una sorta di Disneyland enorme… ma è un luogo reale, un luogo in cui delle persone andranno a vivere davvero. È un posto estremamente surreale, tuttora ancora in fase di costruzione, in cui accanto a palazzi in stile greco-romano e in stile francese trovi edifici simil-cinesi… una vera e propria esplosione di colori.

Poi c’è tutto il rapporto che i giovani intrattengono con quel luogo, un rapporto puro e naïf al tempo stesso, che ha rappresentato per me il vero motore del progetto. Un mondo di apparenza ed illusione che, a livello metaforico, richiama il sogno di una nazione in via di trasformazione, che sta cercando di dimenticare la sua storia per entrare a far parte di un trasognato capitalismo globale. È chiaro che l’artificiosità era un tema da esplorare a livello visivo, quindi con il direttore della fotografia abbiamo cominciato a scavare tra quelli che consideriamo i film cardine del cinema digitale degli ultimi anni, perché anche se adesso giriamo quasi tutti in digitale, i registi spesso lo utilizzano ancora per copiare l’effetto filmico, per fare in modo che tutto ricordi la pellicola. Ovviamente un giorno mi piacerebbe girare in pellicola, ma al momento cerco di utilizzare quello che ho tra le mani, e trovo stimolante il lavoro di alcuni filmmaker americani considerati super mainstream che sono stati in grado di sfruttare pienamente le potenzialità del digitale spingendosi oltre i limiti. Pensiamo al Michael Mann di Collateral e Miami Vice – una vera e propria esplosione di colori – Speed Racer delle Wachowski o al cinema di Harmony Korine. È gente che ha veramente osato fare qualcosa di diverso. Ci siamo quindi scambiati immagini e riferimenti, dal cinema ai videogiochi, per arrivare al punto in cui quelle immagini non ci servivano più, perché avevamo capito quali sarebbero stati la texture e i colori del film che avevamo in mente.

FI: Un altro aspetto a cui lavori sempre con estrema cura è l’utilizzo delle musiche. Per Golden Slumbers hai utilizzato canzoni tradizionali cambogiane, qui hai lavorato invece sulla contemporaneità.

DC: Anche questa per me è stata una nuova sfida, perché si tratta di una colonna sonora originale, a parte due o tre canzoni pop cambogiane e un vecchio pezzo che ho deciso di utilizzare in una delle prime scene, una sorta di richiamo al lavoro fatto con Golden Slumbers. Da spettatore, sono sempre stato affascinato dal modo in cui il cinema utilizza musiche non originali – penso ad esempio a Scorsese, a Tarantino – per cui l’idea di affidarmi a una colonna sonora composta per l’occasione un po’ mi spaventava. Ho chiamato due amici che facevano parte del gruppo francese Revolver, ed è stata un’esperienza interessante perché non avevo idee preconcette, sapevo soltanto quello che non volevo: l’uso di musica elettronica un po’ troppo di moda che spesso ritroviamo nel giovane cinema francese contemporaneo. Si tratta di buona musica, per carità, ma spesso nel suo essere così immediata finisce per lasciarmi un senso di vuoto.

Cercavo qualcosa di diverso, quindi abbiamo esplorato stili differenti basandoci sulla sceneggiatura, e si è immediatamente creato un legame artistico con i due musicisti: spesso mi proponevano qualcosa e quel qualcosa mi ispirava perfino nel modo in cui avrei poi girato determinate scene. Ero in cerca di un’emozione: gli ho fatto capire che il sentimentalismo non mi spaventava e sono riusciti a creare qualcosa di emozionante, qualcosa che non ero sicuro potesse aver senso da principio ma che alla fine ha contribuito a dare coerenza al tutto. Nel film sono presenti sonorità differenti: chitarra, pianoforte, musica elettronica e romantica. È proprio quello di cui parlavo in precedenza: volevo sentirmi libero di fare ciò che credevo fosse giusto per ogni singola scena, con la speranza che alla fine avremmo trovato un’armonia finale.

FI: La scelta di lasciare spazio a grandi momenti di silenzio, sempre dal punto di vista della colonna sonora, è qualcosa di nuovo nel tuo percorso. È un vuoto inteso a rappresentare qualcosa?

DC: In realtà questo è un aspetto che mi hanno spesso fatto notare durante gli incontri con il pubblico ai festival. Non posso dire di non essermene reso conto, ma è una scelta più inconscia che volontaria. Da un lato, sin dai tempi di Golden Slumbers mi sono innamorato delle voci degli attori e dei filmmaker che intervistavo. Forse è dato dal fatto che non sono nato parlando la lingua khmer, era più un suono… non ci avevo mai pensato seriamente, ma in realtà mi viene in mente che era la lingua che i miei genitori parlavano quando non volevano essere capiti da noi figli. Proprio all’inizio di Golden Slumbers c’è una scena in cui sono in macchina con mia madre: era il 2008, io non capivo la lingua ed ero in grado di cogliere soltanto alcuni nomi di opere e registi dell’epoca d’oro del cinema cambogiano. All’improvviso mi sono suonati come un vero e proprio talismano, come un tesoro da scoprire. Quindi si uniscono l’amore per la musicalità estrema di questa lingua e qualcosa di più personale che rimanda alle mie origini, alla mia infanzia.

Inoltre, sempre a proposito all’artificiosità di cui parlavamo prima, si aggiunge anche il lavoro sulle voci: sia per il cortometraggio che per Diamond Island, con il sound designer abbiamo cominciato a lavorare sulle voci e sulla loro frequenza: cercavamo di creare frequenze molto alte per le ragazze e molto basse per i protagonisti maschili. In Diamond Island ci siamo spinti ancora oltre: abbiamo fatto veri e propri casting basandoci sulle voci, abbiamo lavorato sul doppiaggio e sulla post-sincronizzazione. È molto facile far sì che il tutto abbia un effetto naturale, ma noi cercavamo esattamente l’opposto: volevamo che il suono risultasse palesemente non in presa diretta, la nostra intenzione era quella di strappare il velo del realismo e renderlo, forse, ancora più emozionante per questa evidente natura posticcia.

FI: Tu hai effettivamente scoperto le tue origini partendo dal cinema. A partire da quel momento sei stato molto attivo in Cambogia anche dal punto di vista produttivo, raccogliendo storie e fondando un collettivo di giovani registi. Ti concentrerai ancora sulle tue attività produttive?

DC: Avendo aperto la mia casa di produzione cambogiana, Anti-Archive, adesso sono sicuramente più coinvolto di prima. Originariamente era nata perché, per dare un senso al film, mi serviva una co-produzione locale… ma una volta che ce l’hai, a quel punto è giusto sfruttarla! Spesso si presentano giovani registi che mi chiedono supporto per un loro progetto, mentre alle volte sono io stesso a contattarli. Non lo definirei esattamente un aiuto, perché fa parte del tuo mestiere di produttore e comunque ne hai un ritorno. È strano, sono arrivato in Cambogia meno di dieci anni fa sapendo soltanto che mio nonno era uno dei maggiori produttori negli anni ’60, e improvvisamente sono nate mille connessioni, più film e un progetto a lungo termine, oltre ad un collettivo di registi emergenti. Ovviamente continuerò a produrre film sia qui sia in Francia con la mia casa di produzione Vycky Films, ma sono convinto che qui ci siano tante storie da raccontare, tanto ancora da osservare ed esplorare… In Francia di produttori, idee e progetti ce ne sono tanti, e forse per la mia attività mi concentrerò più su progetti cambogiani, dove posso essere realmente utile a qualcuno. Al momento stiamo lavorando al primo lungometraggio di Kavich Neang – uno dei protagonisti di Cambodia 2099di cui ho prodotto il precedente cortometraggio Three Wheels (2015), selezionato a Busan e a Locarno.

FI: Oltretutto, figuri anche tra i produttori di Sponde. Nel sicuro sole del Nord (2015), il documentario di Irene Dionisio. Com’è nata la vostra collaborazione?

DC: Anche questa è stata una vera sorpresa, non mi sarei mai aspettato di produrre un documentario italiano! Io e Irene ci siamo conosciuti a un festival a Taiwan. Ho intuito da subito il sua talento, siamo entrati in contatto, lei era alla ricerca di una co-produzione francese… e così è nato Sponde.