La definizione di teatro filmato ha da sempre avuto un’accezione negativa, indicando o quella tendenza zeffirelliana allo sfarzo di costumi e scenografie, o una debolezza di adattamenti da opere teatrali che non tengano conto dello specifico cinematografico, del linguaggio del montaggio, e via dicendo. Nyai – A Woman from Java, l’ultima opera del filmmaker indonesiano Garin Nugroho, è invece scientemente teatro filmato, costruito con un unico piano sequenza di novanta minuti e realizzato, in virtù di ciò, come uno spettacolo teatrale in una sola performance recitativa ininterrotta, preparata minuziosamente a seguito di innumerevoli prove (alle arti performative tradizionali giavanesi proviene, non a caso, l’attrice protagonista Annisa Hertami). Per Nugroho il cinema è il punto d’incontro di tutte le arti, il luogo dove letteratura, arti performative (musica, danza, teatro), pittura, fotografia, visual e installation art si possono ibridare a piacimento in tutte le possibili combinazioni. In tal senso, ogni sua opera è frutto di nuove forme di contaminazione e Nugroho incarna perfettamente lo spirito di Oshima riguardo la negazione continua del proprio sé stilistico.

Se Opera Jawa, il film che ha fatto conoscere Nugroho a Venezia, faceva rivivere gli archetipi dell’antico poema sanscrito nel mondo contemporaneo in chiave di danza di strada, Nyai – A Woman from Java ripropone in maniera filologica numeri di danza e musica tipici della cultura giavanese negli anni Venti, già essi stessi frutto di un’ibridazione coloniale: il dramma musicale di Istanbul che si è fuso con la tradizione locale di un teatro di maschere e marionette. Nei vari tipi di performance Nugroho restituisce lo spaccato sociale, culturale ed etnico dell’epoca: preghiere tradizionali, canti religiosi islamici, il numero del matto del palazzo, le tensioni interreligiose e quelle nei confronti della dominazione coloniale olandese. E tra le forme d’arte è contemplato anche il cinema, arte coloniale per eccellenza: nei dialoghi si fa riferimento a un film prodotto dal governatore con l’uso di indigeni, e anche a Chaplin.

Nugroho attinge a quattro opere letterarie, due della stessa epoca dei fatti narrati, le altre più recenti. Tutte sono incentrate sul tema della Nyai, figura chiave della cultura balinese, la concubina indigena dei coloni olandesi nelle Indie orientali, simbolo stesso della dominazione straniera e dei suoi soprusi. Il film, ambientato nel 1927, narra proprio di una di queste donne, giovane e bella, sposata con un anziano olandese, infermo e costretto a letto. Obbligata a occuparsi dei visitatori che vengono a trovare il marito malato per il suo compleanno e per discutere della gestione dei suoi terreni, vive come in una prigione e, al contempo, è divenuta impopolare tra la sua gente che la considera una traditrice e le contesta privilegi e ricchezza.

Come si è detto, Nugroho rinchiude la vicenda in uno spazio chiuso claustrofobico, organizzando il film come un Kammerspiel musicale che rispetta le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. La casa, come una gabbia, è la prigione della donna, allo stesso tempo metafora di un paese assoggettato. La casa della Nyai è inoltre un palcoscenico dove si alternano i vari numeri di danza e canto, e i dialoghi come recitativi di un’opera lirica. La gente fuori dalla casa – e quindi da quel fuori campo di cui si odono le grida di protesta nelle loro manifestazioni contro l’occupante e contro la donna che rappresenta l’assoggettamento, la prostituzione ma anche lo stupro di un paese – altro non è che un pubblico che fischia e schiamazza perché contesta la messa in scena in atto. Ma la casa, che è l’abitazione privata stessa del regista, è anche un corpo umano, seguendo la concezione stessa dell’architettura domestica tradizionale indonesiana, dove la facciata è il volto, la parte destra e sinistra sono la mano destra, il lavoro, e sinistra, la famiglia, e la parte centrale opposta all’ingresso è il capo. Nugroho allestisce il proprio piccolo teatro in questa scenografia simmetrica, con una macchina da presa frontale, sostanzialmente fissa, che cambia appena punto di vista nel passare da una performance all’altra. Nessun primo piano, niente montaggio, come in una visione teatrale. Nella parte della testa, viene messo in scena il dramma di un popolo in forma sincopata. A performare in quel teatrino gli attori sociali dell’epoca con le loro tensioni, collaborazionisti e oppositori al regime coloniale, musulmani e comunisti, lavoratori e contadini sfruttati. Questo palcoscenico-salone dove si esibiscono Nyai e gli ospiti che riceve è delimitato da un separé, dietro il quale c’è la stanza da letto, con il vecchio marito malato. Separé che funziona come un classico sfondo scenografico stilizzato e teatrale. Solo alla fine del film la macchina da presa varcherà la porta di quel divisorio, affacciandosi a mostrare la stanza da letto, il backstage, il cervello. E in questo contesto, nel far vedere ciò che doveva essere occultato – il luogo interdetto e inviolabile, la mente, il sistema decisionale da cui si dipartono gli ordini – avviene la deflagrazione di tutte le tensioni accumulate. Nyai spara al vecchio, ma lo fa sempre seguendo un’azione scenica tipica del teatro tradizionale.

Il dramma rende ben evidente il sistema rapace di depauperamento delle risorse e delle materie prime locali da parte degli olandesi. Nyai fa notare al marito come ormai il tè si usi confezionato in bustine, a indicare un sistema industriale che rientra in quell’iniqua organizzazione produttiva detta cultuurstelsel, che vincolava gli agricoltori delle Indie orientali olandesi a riservare una quota di terre a coltivazioni da esportazione verso l’Europa, come tè e caffè, invece di coltivare prodotti per il proprio sostentamento come il riso, generando così malnutrizione nelle popolazioni locali. Il commercio del caffè è visto come il cardine dello strozzinaggio europeo anche nella sua opera letteraria simbolo, che denunciò, già in pieno Ottocento, le nefandezze del colonialismo olandese: Max Havelaar di Multatuli. Nyai – A Woman from Java è il secondo capitolo della trilogia sul colonialismo di Nugroho, e rientra in un cinema post-coloniale in questi anni molto florido: basti pensare a tanti autori filippini o a La France est Notre Patrie di Rithy Panh. Il primo capitolo della trilogia è stato Soegija, un kolossal storico-epico – cosa davvero anomala per il regista – e agiografia dell’eroe nazionale cristiano, il vescovo Albertus Soegijapranata, che aveva avuto un ruolo determinante nell’indipendenza del paese, mentre l’altro film è Guru Bangsa Tjokroaminoto, su un’altra figura patriottica, stavolta musulmana. Di Nugroho si attende di vedere, in qualche modo, anche Setan Jawa, film muto ispirato al Nosferatu che riprende antichi miti islamici rielaborati in numeri di danza contemporanea. Film che può essere visto solo con l’accompagnamento di musica tradizionale gamelan o da un’orchestra sinfonica.