Ripercorriamo i momenti salienti e i film più interessanti presentati all’ultima edizione del Festival di Rotterdam, tenutosi nella città olandese dal 25 gennaio al 5 febbraio scorsi.

Vincitore dell’Hivos Tiger Award, Sexy Durga, quinto lungometraggio del regista indiano Sanal Kumar Sasidharan, costituisce un’inquietante radiografia del maschilismo nell’India di oggi, combinando immagini di un festival indù di Kerala con il racconto di una coppia che viaggia in autostop a mezzanotte. Nel film riconosciamo unicamente due protagoniste femminili: da una parte, la dea Durga, alla quale i devoti di Kerala dimostrano la propria adorazione mediante sacrifici fisici (camminano sui carboni ardenti, sollevando barre di metallo che perforano la loro pelle…); dall’altra, una ragazza col suo stesso nome, percepita invece come puro oggetto sessuale da parte di tutti gli uomini che la incontrano, compreso il suo ragazzo. Kumar Sasidharan definisce l’immagine della donna in India secondo la mentalità maschile attraverso due donne aventi il medesimo nome: una dea e una prostituta.

Vale la pena sottolineare l’abilità del regista nell’intrecciare le scene di non-fiction con la storia dei due amanti rinchiusi nell’auto di un gruppo di sconosciuti, i quali manifestano apertamente il desiderio di abusare della ragazza. Allo stesso modo, sono i prodigiosi movimenti di camera che riescono a fondere due formati così antitetici. Tanto la parte documentaria come la finzione sono girati mediante carrellate impossibili, che rinforzano il senso di claustrofobia del rituale e dell’interno del veicolo: una claustrofobia simile a quella provocata dall’esser nata donna in India.

Superando la metà di Demonios tus ojos, film perturbatore di Pedro Aguilera, in una delicata scena campestre (situata in un punto strategico della narrazione, che mostra la quiete prima della tempesta), due coppie e il fratello maggiore di una delle ragazze conversano nel corso di un’uscita in un camping nel bosco. Il fidanzato della migliore amica della protagonista – un ragazzo che afferma di essere un esperto di cinema perché tutti i film che scarica sono in “full HD” (da notare l’ironia di Aguilera) – racconta al cineasta fratello della protagonista che in Spagna abbiamo perso la fede.

Secondo il saggio, pseudo-cinefilo adolescente, la crisi ci ha trasformati in mostri che hanno perso la fiducia verso il resto del mondo, famiglia e amici compresi. Di seguito, il ragazzo suggerisce che il cinema spagnolo contemporaneo dovrebbe mostrare i disturbi che tormentano i suoi cittadini nell’attualità. Tuttavia al famoso regista stabilito a Los Angeles non interessa includere la denuncia sociale nei suoi film: Oliver (interpretato da un sensazionale Julio Perillán) è il massimo rappresentante di quei “mostri”.

È evidente che “la crisi” non è il motivo che ha trasformato Oliver in quel soggetto senza fede definito dal filosofo dipendente dalla pirateria illegale. La descrizione tuttavia si adatta al suo profilo: la malignità del personaggio che ha costruito Aguilera va in un’altra direzione, percorrendo concretamente un sentiero che nella sua magnifica opera prima, La influencia, viene rivelata in maniera più discreta. Pur essendo certo che in molti momenti lo spettatore di Demonios tus ojos può arrivare a pensare che Aguilera stia giudicando quel depravato sessuale ossessionato dall’idea di andare a letto con la sua sorellastra (Ivana Baquero) dopo averla riconosciuta in un video porno che il suo ex pubblicò su internet senza il suo consenso, il cineasta dimostra di essere disposto a fare il contrario. Così come la matriarca, protagonista dell’incipit – una donna indebitata fino al collo che, datasi per vinta, abbandona i figli a se stessi –, Oliver non è niente più che un altro uomo senza fede, una vittima che, invece di cadere nella depressione come la matriarca, soccombe al cospetto di una malattia molto più pericolosa: il nichilismo.

D’altra parte, va segnalato che Oliver non è l’unica vittima di quel nichilismo nel racconto. Così, in grado maggiore o minore, tutti i personaggi di Demonios tus ojos soffrono di quell’apatia caratterizzata dal “non c’è più nulla da perdere perché non c’è nemmeno più niente da guadagnare”. Il terzo lungometraggio di Aguilera è un thriller psicologico basato su un doppio gioco: quello del gatto e il topo, messo in pratica dai due fratelli disinibiti, e il gioco delle marionette che Aguilera prepara per martirizzare i suoi personaggi. Scioccante, machiavellico e traboccante di sensualità, Demonios tus ojos si posiziona tra la finezza del dramma erotico contorto del francese Jean-Claude Brisseau e la rivelazione dell’indecenza di Michael Haneke.

Arábia, primo film diretto a quattro mani dai brasiliani Affonso Uchoa e João Dumans, è una meravigliosa opera dalla radice neorealista che esplora scenari quotidiani tragici con grande tenerezza e delicatezza, addolcendo così la sua carica melodrammatica. André e Cristiano vivono in un paese brasiliano che si chiama Ouro Preto. I due si conoscono appena. Tuttavia, quando Cristiano muore a causa di un incidente nella fabbrica di alluminio dove lavora, il caso farà sì che il piccolo André percorra gli ultimi vent’anni della vita dell’operaio grazie alla comparsa di un manoscritto che Arábia si incarica di mettere in scena. Così, passati i primi quindici minuti del film, la finzione si trasforma, magicamente, nella rappresentazione visiva del processo di introspezione di un uomo ansioso di dimenticare l’amore della sua vita: un esercizio che realizza mediante la scrittura di un diario – narrato quasi sempre in voice over – e accompagnato da un gruppo teatrale. Uno snodo inaspettato che evoca il sorprendente cambiamento presente tra la prima e la seconda parte di Tabu di Miguel Gomes.

Il film non cerca di esaltare o esagerare l’infelicità dei suoi personaggi, bensì di plasmare il sentimento di solitudine e malinconia che li circonda: che si tratti dei bambini della prima storia, che fanno colazione con il caffè perché non possono comprare il latte; o dell’autore del diario, che viaggia in lungo e in largo per il Brasile accettando qualunque opportunità di lavoro; o dei mendicanti e invalidi che il protagonista incontra nel suo peregrinare: nessuno di questi personaggi fa altro se non prendersi cura di se stesso per cercare di sopravvivere.

Arábia ritrae un Brasile in cui la povertà economica ha superato ogni frontiera e che rode l’anima della sua gente. La scrittura, che avrebbe dovuto aiutare il protagonista a disfarsi del ricordo di Ana, finisce per causare un effetto imprevisto: risvegliarlo dalla sua alienazione mentre rimembra la propria vita. Nelle ultime pagine delle sue memorie, Cristiano ci confessa che solo quando smette di ascoltare il suono del metallo della fabbrica riesce a sentire il battito del proprio cuore. Giustamente Uchoa e Dumans manterranno fuori campo la morte di Cristiano, trascorsa all’inizio del racconto affinché il loro folgorante film ci lasciasse un’unica incognita: Cristiano ha realmente avuto un incidente o morì di tristezza?

Sono trascorsi sette anni prima che il cileno Niles Atallah potesse terminare il suo singolare biopic su Orélie-Antoine de Tounens , l’avvocato e esploratore francese che dedicò tutta la sua vita a cercare il regno di Araucania, situato tra la Patagonia e il Cile. Secondo quanto racconta la leggenda, de Tounens non solo divenne il primo mediatore capace di pacificare l’indomabile popolo mapuche, ma fu anche eletto re secondo la volontà degli indios. Narrata in cinque episodi, che cominciano con la prigionia del francese nelle mani dell’esercito cileno, Rey (vincitore dello Special Jury Award) mette in scena una ricreazione anti-storica della suddetta incoronazione, non documentata scientificamente.

Si sa poco della vita di Orélie-Antoine de Tounens. La sua biografia è una concatenazione di incognite irrisolte. Tuttavia il regista di Lucía non mostra timore di fronte alla suddetta mancanza di informazioni. Questa lacuna di riferimenti è precisamente il punto di partenza che libera la sua folle fiaba. Atallah riempie i buchi della storia dell’esploratore inserendo sogni, deliri, ossessioni che può aver avuto il Re di Araucania. Quelle sequenze sono state concepite con un unico fine: far sì che lo spettatore riesca a staccarsi dal suo punto di vista scientifico per affrontare la leggenda di de Tounens. Così Atallah si dispone a restituire il racconto al luogo che gli spetta: il regno del mito, e non quello della Storia.

La magia di Rey si trova in questa perfetta combinazione tra le scene possibilmente reali – che illustrano un viaggio a Araucania attraverso i codici del western – con momenti di surrealismo estremo – da segmenti filmati in animazione stop motion, sequenze dove i personaggi si travestono con maschere di animali di cartapesta, o brevi frammenti di tematica animale o paesaggistica filmati in 16mm, 35mm o super8.

Il film più sorprendente tra quelli presentati all’ultimo Festival di Rotterdam non è un film. In realtà è un piccolo anticipo – della durata di tre ore e mezza – di un’altra pellicola che ancora nemmeno esiste. Stiamo parlando di La Flor (Parte 1), il cui prologo comincia con un uomo che ci dà le spalle. Quest’uomo è il regista, Mariano Llinás, pronto a raccontarci, con il suo quaderno e un pennarello nero, di che cosa tratterà quest’epopea cinematografica di dodici ore intitolata La Flor. A seguire, il cineasta bonaerense spiega la struttura di quella che sarà l’opera finale con un disegno minimalista, simile a una pianta (possibilmente il “fiore” del titolo). «Sono sei storie. Quattro cominciano e non finiscono. La quinta comincia e finisce. La sesta è quella finale», chiarisce Llinás.

Questo piccolo “aperitivo”, arrivato a Rotterdam (e premiato col riconoscimento speciale del pubblico dedicato ai film finanziati con l’Hubert Bals Fund) dopo essere passato al Festival di Mar de Plata, contiene il primo e il secondo episodio del progetto. In questa enigmatica introduzione, la voce off di Llinás definisce il primo come un film di serie B «di quelli che gli americani facevano ad occhi chiusi e che oggi sembrano aver dimenticato come fare», mentre il capitolo successivo è un thriller musicale. Il direttore di Historias extraordinarias non ha voluto dare troppi indizi sulle otto ore e mezza rimanenti. Ha svelato unicamente il tema o il genere dei racconti a venire: il terzo episodio sarà una storia di spionaggio, la quarta non si sa bene come definirla, la quinta sarà un remake di un famoso film francese, l’ultima una finzione ottocentesca su dei prigionieri che riescono a scappare dagli indios attraversando un deserto.

Senza dubbio il tratto distintivo di La Flor sono le attrici. I sei racconti che costituiscono l’opera finale sono interpretati dalle quattro componenti del gruppo di teatro Piel de Lava: Pilar Gamboa, Laura Paredes, Elisa Carricajo e Valeria Correa. In questo modo ognuna di esse incarnerà un totale di sei personaggi nel lungometraggio. Spiegare i due racconti di La Flor (Parte 1) ai lettori sarebbe come raccontare l’intreccio di qualunque altro film, considerato che il film di Llinás è un trompe l’oeil, ideato con l’unico obiettivo di sorprendere e meravigliare lo spettatore con il suo dominio della suspense, l’effetto sorpresa e snodi narrativi senza fine.

Che cosa ci possiamo aspettarci allora da La Flor? Al momento sappiamo che nella prima parte troveremo delle possessioni demoniache nello stile di John Carpenter, dialoghi che rimandano a possibili scene eliminate da Pulp Fiction, scorpioni portatori della formula dell’eterna giovinezza, assoli di chitarra da pelle d’oca, iPod che trasformano una trama da amanti garreliana in un musical, intervalli collocati in momenti strategici per aiutare ad assimilare gli imminenti snodi narrativi, e personaggi, come quello di Andrea Nigro, capaci di sfidare lo spettatore sfogando il proprio lamento, senza timore, di essere un personaggio non necessario alla finzione… Ma questo è solo l’inizio.

(pubblicato originariamente su www.otroscineseuropa.com per gentile concessione di autore ed editore; traduzione di Alberto Diana)