Vi sono remises o magazzini dove puoi

lasciare o immagazzinare certe cose come un baule con serratura

o un borsone contenente effetti personali

o poesie inedite di Evan Shipman, o carte geografiche segnate,

o anche armi che non c’è stato il tempo di consegnare alle autorità competenti.

E questo libro contiene materiali dalle remises, dalla mia

memoria e del mio cuore. Anche se la prima è stata manomessa

e il secondo non esiste.

ERNEST HEMINGWAY, Festa mobile

Sylvain George ha realizzato dodici film, quasi tutti in bianco e nero e quasi tutti sulla violenza perpetuata in Francia sui migranti e sugli apolidi, tema di cui si è occupato a fondo e senza sosta sin dal Governo Sarkozy. Ha scritto anche quattro cortissimi libri di poesie ed elegie in rime casuali e sparse, anch’essi “in bianco e nero”, ovvero con pagine nere inserite in pagine bianche, tutti pubblicati nel 2016 (che si possono trovare qui). Ha studiato filosofia e cita più volte Benjamin in quasi ogni sua opera, filmica o in versi, intervento o intervista.

Ha uno stile collaudato, che forse nella sua ultima opera si assottiglia, acquista leggerezza: camera a mano, bassa risoluzione, bianco e nero volutamente “sporco”, citazioni filosofico-letterarie e poetica dei “gesti di insurrezione”, interviste in strada che sono “prises de parole” di lunga durata dalle strettissime inquadrature e suono sincrono spesso interrotto da improvvisi momenti di silenzio assoluto (come scintille mute di una misteriosa rivelazione audiovisiva?).

Paris est une fête – Un film en 18 vagues gli è stato commissionato dal Centre Pompidou, ed è uno dei pochi documentari francesi a godere della distribuzione in sala (per ora l’unico sui fatti e movimenti sociali dell’anno scorso). Presentato nella competizione principale della trentanovesima edizione di Cinéma du Réel, è attualmente visibile in tre sale parigine, in qualche sala bretone e in una sala marsigliese, quasi sempre accompagnato da dibattiti in cui l’autore dialoga, o giustamente si scontra, con sociologi, etnologi, antropologi o critici cinematografici.

Il film deve il suo titolo alla traduzione francese di A Moveable Feast, autobiografia agrodolce e incompiuta di Ernest Hemingway, edita dalla sua ultima moglie nel 1964. A seguito degli attentati del 13 novembre del 2015, il romanzo era tornato in voga nella capitale francese: le sue copie venivano depositate nei luoghi in cui si rendeva omaggio alle vittime, come immagine cartacea “di sfida e di festa” e parte di quella che fu definita la “resistenza delle terrazze”[1]. Tant’è che Gallimard dovette ristampare altri quindicimila esemplari del “romanzo emblematico del momento”[2]. Le Figaro lo aveva addirittura definito “un simbolo contro gli oscurantisti”, che incarnava “l’arte del vivere e la cultura francese”, e che, “nel titolo e nel contenuto”, rappresentava “tutto ciò che disprezzano coloro che hanno assassinato e ferito centinaia di persone che volevano vivere in tranquillità un venerdì sera”[3].

Non sappiamo se Hemingway volesse o potesse incarnare “la cultura francese” tutta e soprattutto la parigina “art de vivre”, peraltro difficile da definire ed uniformare ad un solo modo di esistere. È certo che lo scrittore, straniero nella “Parigi dei bei tempi andati”, aveva vissuto la capitale con la curiosità e l’amore di chi non vi è nato, ma anche con la povertà di chi dell’arte di vivere ne conosce tutte le difficoltà, innanzitutto economiche. Tant’è che uno dei temi ricorrenti della scorrevole autobiografia è la fame, quella fame che spinge a stare in guardia dall’odore delle panetterie (che, come si sa, a Parigi son più costose delle gioiellerie), dai menu dei ristoranti e dalla vista della gente che “mangiava fuori ai tavoli sui marciapiedi”[4].

Di Hemingway il regista parigino recupera in qualche modo l’ironia. L’oscurantismo sulla scena non è, qui, quello del terrore che viene da fuori, ma quello della V Repubblica di François Hollande e della sua inedita macchina repressiva. Ma, innanzitutto, Sylvain George reintroduce il “movimento”, sia esso individuale o collettivo, in quel concetto di festa tutta urbana, quel moveable scelto dalla moglie-editrice che la traduzione francese del romanzo aveva smarrito.

Moveable è ciò che è capace di essere mosso, aggettivo che si potrebbe cucire addosso alle attitudini contestatarie francesi degli ultimi due anni. La strada, la folla, l’arte di arrangiarsi e la solidarietà si sono rimesse in gioco nell’attitudine che ha generato il flusso incontrollabile di quest’altra festa parigina, così incantevole e macabra, che Sylvain George riesce perfettamente a descrivere.

I 18 movimenti del suo film esibiscono in forti contrasti quel mélange tutto francese, assolutamente indistricabile, di “sangue e democrazia”[5], di violenze poliziesche e decoro borghese, di parole mobili in piazze mastodontiche e di fughe incredibili nei vicoli sopravvissuti al Baron demolitore. Sgranate fotografie dipingono le ombre in pieno giorno di una Parigi sempre più ferita, dal mostro esterno e dalle sue stesse trappole securitarie, come pure le gioie notturne di ogni corteo che diventi “selvaggio”, e, a proprio rischio e pericolo, gioioso, sfacciato, festivo.

Il film, difatti, avanza con le gambe non solo giovani di chi contesta e col cuore rotto e ovunque disseminato di una città in cui ne abbiamo visti circolare di festosi slogan, persino in mezzo alle scariche di gas e agli accerchiamenti più brutali. Paris est magique erano le parole mobili portate in corsa in più d’una manifestazione… perché Parigi è magica quando si tiene la strada, scrivevano i rivoltosi irriverenti dei movimenti contro la “loi travail”, artefici di quel “débordement qui manifeste” con “provvisoria autorità visiva” (secondo la poesia delle scritte sui muri della scorsa primavera).

paris-est-une-feteÈ una Parigi indubbiamente lontana dal “campo di battaglia della caffetteria”[6] e persino da quei bar “ancora economici” dove Hemingway poteva incontrare gli acuti Poeti, locali o di passaggio. Suo profeta non è qui la celebre collezionista Gertrude Stein, ma il “minore non accompagnato” Mohamed Camara, voce che abita e dispiega quella Parigi che è puro esterno, città-monumento che può divenire foresta in pieno centro, paesaggio urbano di alti e indecifrabili girasoli[7]. Al pari di Hemingway, Sylvain George afferma infatti di muoversi tra l’immaginazione e i fatti reali (o, piuttosto, di sposare un cinema politico in cui “le réel engage la création”[8]).

In una delle 28 “vignette parigine” che dovevano comporre l’autobiografia di Hemingway, lo scrittore americano descriveva la fame come “un’ottima disciplina”. Esiste una fame banale ed esiste una fame (ironicamente) “salutare”, che fortifica l’umana sensibilità: riserva di sinestesie che acuisce la percezione dello spazio urbano e mostra le cose mai viste prima, strategia di sopravvivenza di chi è costretto a vivere da nomade in casa propria. Ci sono, dunque, “tanti tipi di fame”, diceva a Ernest la prima moglie. “Il ricordo” è uno di essi.

Se la fame è una disciplina della memoria, la rivolta ai margini della Parigi benestante è un’ottima riserva mobile delle più affamate reminiscenze collettive, è conoscenza e riappropriazione di quello spazio urbano ogni giorno smarrito, e tuttora ostile. Ed è pure un esercizio di resistenza, famelico, difficile e inevitabilmente incompiuto, alla crescente fascistizzazione della società francese. Paris è pur sempre “le plus beau décor du monde”[9], ma è anche lo scenario che si compone di detriti urbani e vestigia da marciapiede, di guanti spaiati e oggetti perduti, di gusci di proiettili e involucri di granate.

Paris est une fête di Sylvain George è difatti un libro audiovisivo in cui, sottraendo, se si vuole, il termine agli studi foucaultiani, la rivolta è la disciplina giornaliera che spinge a reinterpretare le istanze dei più affamati ricordi, infinito ripetitore ed acceleratore di sommosse interrotte e di battaglie perdute (la rievocazione continua, benché stilizzata, dell’esperienza della comune di Parigi, come pure del vincente movimento contro il CPE, dei viaggi per mare del giovane Camara, e infine di chi non c’è più, vittima del terrore poliziesco, quando la camera di Sylvain George rende visita alla stele commemorativa di Zyed e Bouna, adolescenti morti a Clichy-sous-Bois nell’ottobre del 2005). La memoria in lotta della città di Parigi si esprime nelle testimonianze della vita delle popolazioni e in quelle delle vite singolari, nelle lunghe durate e negli istanti di riappropriazione (e aiuta anche il buon montaggio del suono, curato da Ivan Gariel, come pure la raffinata presenza musicale dei Godspeed You! Black Emperor, maestri dell’uso della lunga durata in quel che ancora chiamiamo post rock).

Delle lente maree e delle veloci tappe che scandiscono questa balade audiovisiva e notturna non sapremmo coglierne l’inizio o la fine, o prevederne la durata. Si tratta, piuttosto, di motivi tutti intrecciabili di un unico, politico, film de ville, che a detta dell’autore è anche un omaggio moderno a quelle sinfonie d’antica pellicola (Elie Lotar, Alberto Cavalcanti e Paul Strand in particolare, ma anche agli esperimenti di Marey, o al Jean Vigo di A proposito di Nizza).

Paris est une fete è un collage di magazzini en plein air, baule senza serratura di quelle memorie conflittuali continuamente manomesse dalla polizia (le CRS che il 29 novembre del 2015 profanano l’omaggio popolare alle vittime di novembre) o in vario modo ripulite dalle istituzioni (la statua e la piazza di République, per oltre un anno eletta luogo d’elezione spontanea di aperti interrogativi e sempreverdi rivendicazioni, di striscioni cinici e di romantiche blasfemie, di confidenze notturne e di insonnie militanti, di cori vecchi e nuovi e d’istinti felici, e infine il più arcinoto simbolo di dissonanti democrazie: quelle tentate ogni sera alle 18 dalle assemblee non in cerca d’autore, quelle imposte a suon di état d’urgence e colpi di manganello).

Esiste, ed è qui visibile, una fame della strada, esuberanza instancabile di quella Parigi minore che ad ogni alba disfa e rimonta le tende della piazza in piedi, rioccupando quel perimetro inoccupabile, introducendo micro-formule di lotta nuova nelle cornici antiche della resistenza (l’assemblea, il presidio, la sfilata sindacale).

Il regista filma in particolare la manifestazione non autorizzata contro la Cop21, che si svolse all’epoca del primo stato di emergenza promulgato da Hollande, imponendo il fermo di polizia ingiustificato ad oltre trecento persone[10] e la messa in scena di tecniche repressive importate al mondo anglofono (la nasse, trappola animale per prede umane manifestanti). A questo momento di lotta accosta le immagini di una delle prime corpose manifestazioni contro la Riforma El Kohmri (9 aprile 2016), terminata in corteo notturno non autorizzato diretto alla residenza privata dell’allora primo ministro Manuel Valls, e infine alcuni momenti della Nuit Debout. Sono tutte vagues non didascaliche di cui si spera che anche chi “non c’era” possa coglierne i riferimenti e le suggestioni. E forse, anche per questo, il film andrebbe visto assieme a quei documenti visivi che non saranno mai distribuiti in sala (anche per scelta, come TremblementsUn film sans fin sur les luttes en cours, collage anonimo in 16 millimetri autoprodotto dal laboratorio analogico L’Etna, tra cui spicca una perla poetica sul “militantismo triste”) come pure ai “documentari d’autore” non commissionati (L’Assemblée, di Marianna Otero).

In un cortometraggio di Sylvain George del 2008, Un homme idéal (Fragments K), il protagonista sans papier affermava “voglio dare una festa per far esplodere tutto quello che ho dentro, per fare uscire tutto e poi tranquillizzarmi”[11]. È forse questo il senso più profondo di Paris est une fête, un bisogno primario ed anche visivo di vivere e dire altrimenti la fatica metropolitana nella città dell’esclusione. Anche se di tranquillità, purtroppo o per fortuna, non vi è ancora ombra alcuna.

NOTE

[1] Ovvero dei tavolini all’aperto, presi di mira nei massacri di novembre http://www.lepoint.fr/dossiers/societe/attentats-paris/tous-en-terrasse-les-francais-inventent-une-nouvelle-resistance-18-11-2015-1982729_2640.php
[2] http://www.lemonde.fr/attaques-a-paris/article/2015/11/20/paris-est-une-fete-d-hemingway-le-roman-du-moment_4814216_4809495.html, traduzione nostra.
[3] http://www.lefigaro.fr/livres/2015/11/19/03005-20151119ARTFIG00143-hemingway-symbole-de-la-resistance-aux-attentats-de-paris.php, traduzione nostra.
[4] E. Hemingway, Festa mobile, Edizione integrale restaurata, tr. it. di L. Lunari, Mondadori 2011, p. 38.
[5] S. George, La vita bruta, une adresse à Pier Paolo Pasolini, NP Editions 2016, p. 60.
[6] M. Vallora, Nadar o “dell’arte prodigio, che da nulla produce qualcosa”, in Nadar, L’arte del ritratto, Abscondita 2016, p. 16.
[7] Quel “muto lamento della natura”, altra citazione benjaminiana.
[8] S. George, intervista di Raquel Schefer a Sylvain George, dossier de presse di Paris est une fête, p. 14.
[9] Le Joli Mai (Chris Marker e Pierre Lhomme, 1962).
[10] Su cui si sofferma un altro documentario autoprodotto realizzato l’anno scorso: 317.
[11] Trad. nostra.