Columbus – uno dei titoli più apprezzati all’ultimo Sundance – è l’opera d’esordio di kogonada, nickname di uno dei noti autori di video essay della rete (suoi sono, per esempio, gli imitatissimi video Wes Anderson// Centered e Kubrick// One Point Perspective).

Al centro del film c’è l’incontro fra due personaggi “sospesi”: Casey (Haley Lu Richardson), che ha finito il liceo e invece di andare al college è rimasta accanto alla madre, dipendente da metanfetamina, e Jin (John Cho), arrivato negli Stati Uniti dalla Corea per vedere il padre, un professore di architettura ricoverato in ospedale, con cui Jin ha un rapporto conflittuale. La Columbus in cui il film è ambientato, quindi, non è solo una cittadina dell’Indiana tempio dell’architettura modernista, ma diventa un vero e proprio limbo, un luogo in cui le esistenze dei protagonisti sembrano messe in pausa, e l’azione cede il posto a un perdersi contemplativo in quegli spazi che nel film assumono un ruolo centrale. L’innamoramento di Casey per gli edifici di Deborah Berke, Eero e Eliel Saarinen o Harry Weese è condiviso dal regista, che rende protagonista questo straordinario sito architettonico. C’è una tensione dialettica palpabile, in questo film, fra l’istanza che osserva e lo spazio osservato: nel prendere posizione la macchina da presa sembra negoziarla costantemente con le linee, i bordi, le trasparenze e gli ostacoli che si trova di fronte, tant’è che i movimenti di macchina sono assenti, quasi a non voler rompere un equilibrio guadagnato a fatica.

L’esaltazione delle superfici, delle simmetrie, della profondità di campo però in Columbus non è un orpello estetico, o un modo per conferire al film una ricercatezza fine a se stessa: l’ordine visivo rigorosissimo accoglie due solitudini che si rispecchiano con precisione simmetrica, come le file di scaffali nella Cleo Rogers Memorial Library o i due bracci a L che incorniciano la facciata del Columbus City Hall: tanto Casey si trincera dietro i suoi doveri filiali per non affrontare il futuro, quanto Jin cerca di dimenticare il passato e rifiuta, invece, di assumere il ruolo di figlio devoto per un padre assente (un’assenza resa letterale nel film: lo vediamo solo di spalle, in lontananza, ne intravediamo appena i piedi dalla porta della stanza in ospedale). E lo smarrimento esistenziale dei protagonisti ha il suo rovescio nell’utopia modernista della razionalità, della funzionalità, del progresso: gli edifici di Columbus, con le loro forme nette e regolari, con le loro trasparenze, regalano l’illusione di un ordine nel fluire caotico dell’esistente.

Columbus è il felice risultato di un apprendistato iniziato “smontando” i film di Ozu – la cui concezione degli spazi è in effetti ripresa qui in maniera evidente. Il nesso con la pratica del videosaggio, però, non si rintraccia soltanto nelle influenze, che pure ci sono, degli autori che kogonada ha analizzato nel corso degli anni. Al di là di (pochissimi) manierismi, Columbus è un film sul saper vedere: se il kogonada cinefilo ricercava in modo quasi ossessivo nei film delle ricorrenze, dei pattern che servissero in qualche modo a permettergli di dominare un’esperienza totalizzante e intensa come quella del cinema, il regista kogonada, in modo non dissimile dalla sua protagonista, esercita il proprio potere di selezione e di orientamento dello sguardo per prendere le distanze da ciò che osserva quel tanto che basta per trovare l’armonia nel disequilibrio, per non soccombere allo smarrimento e all’impotenza.

In questo senso, si potrebbe dire che la fiducia di kogonada nel potere del cinema di catturare la bellezza, di farci vedere l’esistente con occhi nuovi, di dare un ordine al reale, fa di lui uno degli ultimi modernisti.