Dei molti momenti memorabili della trilogia del Cavaliere Oscuro – ad oggi l’unica trasposizione supereroistica sensata, artisticamente rilevante e durevole – uno in particolare riaffiora costantemente dalla caligine della memoria. Il gruppo di poliziotti, unito e in marcia, che va a riprendersi la città di Gotham. Una sequenza corale, in cui ogni individuo è un uomo e non un insieme di pixel, in cui l’idea è che per conquistare qualcosa serva lo sforzo di tutti. C’era un che di fordiano in quella sequenza, qualcosa di De Mille, la convinzione che il cinema possa rimettere l’uomo al centro, possa regalarci il miracolo. Che non sia solo “un altro medium”, bensì il mezzo per aspirare a qualcosa di più, per metterci costantemente alla prova. In quella sequenza c’era molto di Christopher Nolan, di un collettivista sognatore, di un nostalgico artigiano che si rifiuta di fermare la macchina. A Nolan non è stato donato il talento – in quella sequenza visivo, eversivo – di Kubrick o di De Palma. Rispetto all’enorme quantitativo di girato e alla sua risonanza, tonitruante come una colonna sonora di Zimmer, restano poche sequenze indimenticabili e scolpite nella memoria nella loro impossibilità di essere migliorate. Ma nell’economia generale della Nolanèide cinematografica la questione ha un’importanza relativa.

Un po’ come a Dunkirk – pardon, Dunkerque – in cui non si trattava di inventare nuove strategie o di compiere atti eroici, ma di portare a casa la pelle. E salvare il mondo. Nolan ha vinto la sua Dunkerque. Ha portato a termine un’impresa e convinto gli scettici – fatta eccezione per qualche “giapponese sull’atollo”, per cui la guerra non avrà mai fine; ha dimostrato che l’analogico 65 mm può coniugarsi con l’Imax e che il war movie non deve necessariamente piegarsi alla legge della nuova spettacolarizzazione coatta (vedere un qualunque film di guerra sudcoreano degli ultimi anni, con l’otturatore perennemente al massimo, per credere). Con ciò, Nolan non intende nemmeno maniacalmente mettere su una spiaggia 300 mila soldati o imbarcazioni sufficienti per trasportarli. La sensazione di realismo e di cosa significhi trovarsi in una guerra appartiene ai primi 25 e forse insuperabili minuti di Salvate il soldato Ryan. Attraverso il suo lavoro sul tempo, e sui tre segmenti differenti tra terra, acqua e aria, Dunkirk mette in scena l’astrazione di una possibile fine del mondo, le prove tecniche di un’apocalisse. Non conta la veridicità, né il nome, il volto o l’identità dei personaggi. Conta la sensazione, come quel thrilling che ti accompagna dai primi minuti, in cui una mappa svolazza in cielo preannunciando un oscuro presagio, fino all’epilogo, in cui la voce di Churchill trasforma l’angoscia in desiderio di riscatto. Contano i colori, che dalle tonalità dominanti di grigio e marrone trascolorano gradualmente verso i rossi e i blu della speranza, intravista insieme alle bianche scogliere di Dover. “Per me questo film doveva svolgersi come il terzo atto di un’opera più grande”, dice Nolan: quasi impossibile comprendere chi sia chi nei primi minuti di film, ma durante l’apocalisse nessuno legge l’appello dei presenti. Fuoricampo c’è costantemente il “finale alternativo”: cosa sarebbe successo se qualcosa fosse andato storto nel finale di Dunkirk? Oggi cosa faremmo, al posto di dilettarci su pellicola vs. digitale, Imax e 65 mm?

La fine del mondo, o dei mondi, attraversa tutto il cinema di Nolan, si pone come suo unico e significativo collante: un reagente estremo, che spinga l’essere umano a scelte altrettanto estreme, senza possibilità di errore. A questo pensa l’ufficiale interpretato da Kenneth Branagh, a questo il pilota kamikaze di Tom Hardy, o il marinaio eroico di Mark Rylance. Ora o mai più. Anche per il cinema, quello tradizionalmente inteso, lontano dal proteiforme audiovisivo che si sta divorando tutto. Dunkirk rappresenta una misura estrema: crederci richiede l’abnegazione del soldato e la visione netta e priva di sfumature del fanciullo. Chris Nolan ha la fortuna di possederle entrambe.