Un film su Nico scotta, e scotta ancora di più se non è un documentario né desidera avvicinarvisi, ma ha l’intenzione e forse la pretesa di declinarsi in racconto – di far sì, cioè, che i fatti come sono avvenuti cedano il passo alla narrazione e a un’indagine emotiva che vi si addentri in profondità. Ecco che, allora, si fa difficile la manipolazione cinematografica di una materia calda, diciamo pure vulcanica, com’è quella di un’icona, l’ologramma ben più che discografico di una dea intoccabile, un’idea composta esclusivamente di anima e voce, fissata nell’iperuranio dei tardi sixties, tra il Max’s Kansas City e la Factory, intrappolata, nei decenni, in quello che è uno dei dischi più seminali e d’avanguardia (nonché, soprattutto, straordinari) dell’intera storia della musica che diciamo popolare. C’è il suo nome, in quel titolo, The Velvet Underground & Nico, ed è un nome (d’arte) che resta periferico per volere della band, un’aggiunta voluta da Andy Warhol, il committente-creatore del progetto: e invece… Invece, a dispetto della presenza quantitativamente marginale della sua voce in quel lavoro, la storia è qui per dircene la forza fondamentale, incisiva, assoluta.

C’è un’altra Nico, però, oltre quella cristallizzata nel ricordo di un brevissimo momento passato alla Storia, ed è una Nico nascosta che, prima di morire – appunto, da titolo, nel 1988 – ha lasciato una discografia tutta sua, ricchissima e d’avanguardia. Una Nico che non è più Nico, ma torna a essere Christa Päffgen, bimba cresciuta nella Germania nazista, poi modella, icona ibrida di bellezza glaciale e voce lavica, certo, amante bellissima di tutti i bellissimi e dannatissimi, da Brian Jones ad Alain Delon. Ora diventata adulta. Questa è la Nico che interessa a Susanna Nicchiarelli: un altro da noi ma non altro da sé, sconosciuta a tutti ma centrale nella storia della musica del ‘900, “sacerdotessa” di nulla ma capace di piegare in due, letteralmente far piangere sulla pagina, persino Lester Bangs: la Nico maieuta di quello che verrà chiamato Gothic Rock.

Nicchiarelli ha un’idea ed è un’idea forte, centrale, basilare per chiunque scelga la via del biopic: non inseguire faticosamente il fantasma, l’immagine, l’ideale fisico-narrativo del mito che prova a ricalcare la realtà, ma costruire il proprio personaggio in modo profondo, a partire dalla sua psicologia. Dalla fitta, complessa, eroinomane ma lucidissima, cupa e malinconica personalità della Christa adulta, la regista fa nascere un personaggio complesso, stratificato, altero, spesso magico. A seguirla in questo viaggio e renderle realizzabile ogni intento, c’è Trine Dyrholm: recentemente premiata per La Comune di Thomas Vinterberg, che ce l’aveva presentata in Festen, eccola tirare fuori il suo passato di cantante – persino vincitrice, in giovane età, del corrispettivo danese del nostro Festivalbar – e regalarlo a un presente di attrice straordinaria.

Il risultato è una recitazione completamente performativa, che non ammicca mai e sposa, piuttosto, la causa dell’interpretazione in modo commovente. Quella che vediamo è, insomma, incontrovertibilmente, la vera Nico, quella che Susanna Nicchiarelli ha conosciuto e amato attraverso i suoi dischi e lo studio, non una proiezione collettiva della Nico degli annali. La vediamo bolsa, consumata dalle droghe e dalla vita, immersa nel proprio presente ma condannata alle allucinazioni del passato: è dura, estrema, ma con una dolcezza sommersa che conquista, in crescendo, lo spettatore.

Nico, 1988, che ha aperto le danze e portato a casa il premio come miglior film della sezione Orizzonti della 74ª edizione della Mostra del cinema di Venezia, è la dimostrazione precisissima di come il biopic possa persino superare il documentario per forza di racconto e di disegno. Il film è figlio di viaggi in solitaria, di ricerche, dialoghi tra Manchester, Praga, la Francia. Costruito con l’aiuto di Ari, figlio di Nico e Alain Delon che il padre non ha mai riconosciuto ed è figura centrale anche all’interno della storia che guardiamo. Si tratta, soprattutto, di un racconto cinematografico a mani sporche, pieno di sostanziale voglia di offrire, restituire, condividere una forma di empatia, comprensione, abbraccio, tra regista e personaggio. In questo senso, una vera rarità.

Un difetto? La Dyrholm è così brava che si prende tutto, e le storie che il film racconta, come spesso gli altri personaggi, sembrano ronzarle intorno più che riguardarla. Al pessimo doppiaggio italiano, aggiungiamo alla liste delle minuzie non degne, quegli attimi didascalici iniziali che precedono l’esplosione di tutto il talento della protagonista.