Pur essendo il primo lungometraggio di finzione di Jean-Gabriel Periot, Lumières d’été continua la riflessione iniziata dal cineasta nei suoi film precedenti tramite il lavoro sull’immagine d’archivio. Se la forma cambia, la domanda rimane la stessa. I film di Periot indagano lo scarto fra il passato e le sue rappresentazioni – che vi danno accesso e nel contempo ne ostacolano l’accessibilità –, fra il non conosciuto e il troppo conosciuto, fra il non detto e il detto. In fondo, quello che si cerca è il luogo del passato, recente e traumatico.

Akihiro, regista giapponese che abita a Parigi, gira un documentario a Hiroshima per la televisione francese nell’occasione del settantesimo anniversario del bombardamento. Eppure questo non interessa nessuno in Francia, dice lui. Nel corso di una passeggiata, incontra per caso una giovane donna che lo trascina per la città. Questa fuga nella pienezza del presente – Akihiro dimentica tutti i suoi obblighi per seguire Michiko – gli permette di fare l’incontro che aspettava col passato.

Il film comincia con delle riprese in uno studio di registrazione, dove Akihiro intervista una “hibakusha”, una superstite della bomba. Il campo/controcampo registra gli effetti di questo dialogo su Akihiro che lo sta raccogliendo: il suo viso si altera. Eppure nel silenzio sordo dello studio, la parola sembra smaterializzata. Lo studio è un bunker. Vi si può udire senza vedere niente del mondo, e non si sa esattamente cosa si vede: le inquadrature della signora Takeda potrebbero essere le immagini delle riprese come potrebbero essere quelle prodotte dalle riprese. Si possono incontrare tre tempi nelle immagini: il passato raccontato, il presente delle riprese e della testimonianza, il futuro prossimo in cui queste immagini saranno già diventate archivi. La cosa che colpisce di più è il divario fra la carica emozionale della testimonianza e la precarietà delle immagini, delle loro condizioni materiali di produzione. La parola risulta qui l’unico modo per accedere alla rappresentazione – a una rappresentazione fragilissima che richiede uno sforzo poiché essa non è un dato. Come si fa a rappresentarsi ciò che è soltanto detto? Una tale domanda si pone tanto più che questa situazione di parola è finzionale e che non sappiamo veramente cosa penseremmo di quel film che si sta girando, di questa messa in scena semplicistica, di quelle domande formulate senza tatto. La signora Takeda racconta il disastro, la mamma scomparsa e la sorella infermiera, Michiko, che muore dalla “malattia della bomba” qualche mese dopo il bombardamento.

Non è il film che stiamo guardando, Lumières d’été, a essere interrogato da questo dispositivo: anzi è la produzione dell’immagine documentaria detentrice di verità a essere confrontata al suo riflesso invertito, quello del film di finzione. In altri termini, non è lo specchio del documentario a essere presentato alla finzione questa volta: è lo specchio della finzione che interroga il documentario. Il testimone produce una rappresentazione. Però quali sono la natura e il luogo di questa rappresentazione? E qual è, allora, l’effetto di questa parola su colui che l’ha sentita?

Dopo questo prologo immobile, austero e tagliato fuori dal mondo esterno, sembra cominciare un altro film che, in principio, ci fa dimenticare il primo. È un film leggero e luminoso, in movimento. È la vita che torna. In un parco, scappando per un momento alla troupe del film che deve raggiungere più tardi, Akihiro si riposa da ciò che ha appena sentito, e forse lo medita. Accanto a lui, una donna giovane in vestito tradizionale. Lei lo avvicina perché lo ha sentito parlare francese, lui le spiega cosa sta facendo lì, e allora la ragazza lo coinvolge in una passeggiata nella città. Eccola a fargli vedere, con le sue parole, cosa c’era e non c’è più, cosa non si vede più. Ecco che tutto ciò che c’è qua, visibile, e che non presenta nessuna traccia del passato, si doppia d’ora in poi di un’altra storia invisibile. Ecco che in mezzo a tutta la vita della città ricostruita sul caos, appaiono, con le parole, i fantasmi. Akihiro dice alla ragazza che lei è molto forte, lei gli risponde che basta voler vedere. Voler vedere. Lei riesce col suo desiderio a far saltare le resistenze che gli impediscono di lasciarsi andare. Lui la guarda, tra divertimento e sorpresa, e il desiderio nasce. Desiderio di una donna e desiderio di vedere.

Nelle immagini, nessuna profondità di campo, un ambiente sempre sfuocato. Come se solo contasse l’istante presente e la sua immediatezza. Uno strano contrasto nasce da questo confronto tra un presente al primo piano, unica zona di nettezza che si mostri a noi, e l’evocazione del passato dalla donna che mostra. È uno strano presente quello che vivono i due, destinato a scomparire immediatamente, ad annullarsi. Periot riprende l’istante che è sul punto di abolirsi piuttosto che il momento che si prolunga in un’eccedenza di durata. È il presente che, in un doppio movimento, anticipa la sua propria sparizione e fa avvenire nel mondo ciò che non esiste più.

La ragazza si compra nuovi vestiti per essere più à la page e i due vanno al mare. Akihiro pianta in asso la sua troupe per passare la serata con gli amici che si sono appena fatti, un bambino, Yuji, e il suo nonno, il signore Aoki, che stavano pescando nel porto. Strana coincidenza: quando la ragazza si presenta, lei ha lo stesso nome della sorella scomparsa della signora Takeda. Dimentichiamo poi questo dettaglio e il film continua, slittando verso il ritratto di un uomo che si libera dai suoi obblighi, che fa il grande passo, che torna nel suo paese, che si lascia portare da un nuovo amore e che si riconcilia con se stesso.

Al mattino, però, Michiko è scomparsa, svanita. Non era che un fantasma, spiega semplicemente Akihiro al bambino. Akihiro ne sapeva più di noi. Sapeva che si stava lasciando portare dalla suggestione del testimone. E noi abbiamo creduto alla realtà di Michiko nonostante tutti gli indizi disseminati: il cambiamento dei vestiti, il canto tradizionale e spettrale della donna che ricorda Mizoguchi e i suoi Racconti della luna pallida d’agosto, la festa degli antenati che i personaggi stanno celebrando… E così abbiamo visto ciò che volevamo vedere, ciò che la parola iniziale ci consentiva di vedere. Il finale ci riporta a noi stessi, come investiti di una nuova responsabilità e di una nuova capacità: se questa volta siamo stati capaci di vedere, perché non esserne capaci prima, o dopo, o altrove?

Tutta la forza del film sta nell’indagare gli effetti di questa parola che può farci vedere, che può svegliare il desiderio di sapere e che però non basta a se stessa, poiché precisamente suscita le immagini che gli mancano. Peccato che siano quasi soltanto la narrazione, la sceneggiatura e i dialoghi a farsi carico dell’esplorazione di questa funzione della parola. Peccato che tutto ci sia detto. Come se Periot non sfruttasse veramente l’ambiguità e la tensione dell’immagine stessa, dell’immagine che, essendo l’impressione fisica dell’assenza, ha naturalmente qualcosa di spettrale. Questa tensione che costruisce il reale come immagine è centrale nel lavoro sull’archivio condotto da Periot nei suoi film precedenti. Ma qui il capovolgimento narrativo e tutti gli indizi lasciati nel corso del film non sono completamente all’altezza della domanda che si pone il regista. Da questa mancanza Lumières d’été riesce tuttavia a salvarsi grazie alla sua modestia: privo di magniloquenza e di presunzione, il film è fedele alla delicatezza e alla gravità leggera del suo fantasma.