Tra i molti stimoli che la sua visione offre, Loveless pone l’annosa questione del realismo e della sua effettiva efficacia. Come nei suoi precedenti film, Andrey Zvyagintsev sfugge dalla rappresentazione immediata e naturalista della realtà, da quella soluzione che certo accomuna le molte derive autoriali europee ispirate, tra gli altri, al cinema dei fratelli Dardenne – cinepresa in spalla, fotografia anonima e onda lunga della benedizione neorealista. È piuttosto un continuo girare intorno, e sfiorare questi canoni stilistici ormai codificati, per poi capovolgerli e sfuggirne, intercettando così l’essenza più profonda, problematica e meno accomodante della società russa, tale da rifletterne tutta la complessità.

Prendiamo come esempio il momento, di rara forza, in cui il dodicenne Aleksey è chiuso in bagno, dove ha appena ascoltato la discussione tra i genitori nella quale venivano considerate le armi da poter usare l’uno contro l’altra. Il ragazzo appare improvvisamente, con il volto stravolto dalle lacrime e incorniciato da un riflesso di luce esterna che irrompe nel buio quasi assoluto, dopo che la madre, entrata per un attimo, ha chiuso la porta dietro la quale è nascosto. Una visione improvvisa e inaspettata, costruita in maniera paradossalmente simile ai jumpscare di tanti horror contemporanei. È attraverso questo impatto visivo che il giovane si staglia come una presenza estranea, un elemento non conciliabile con l’egocentrismo e il cinismo dominanti, non collocabile nell’utilitarismo che caratterizza i comportamenti e le rivendicazioni dei genitori nell’immediato della sequenza, e dell’intera società russa nel corso del film. Un fantasma che quasi spaventa gli spettatori, ai quali Zvyagintsev sbatte in faccia la condizione di totale alienazione del personaggio.

Loveless racconta la storia della sua scomparsa, così come racconta la scomparsa di qualsiasi parvenza di empatia, vicinanza o comprensione, che solo in parte e gradualmente vengono smosse dalla ricerca sempre più disperata del giovane. È una società al grado zero d’umanità, ancor più atomizzata di quella descritta in Leviathan (2014). Una società la cui disperazione il film restituisce ma non assume su di sé, come nella messinscena di qualcosa di già ben noto. A partire dall’istituto familiare, vero fulcro di rancori, rimpianti e egoismi, per arrivare al contesto sociale e politico, continuamente richiamato dalla voce dei media, da dettagli, battute e comportamenti rubati allo sfondo.

Come ne Il ritorno (2003) e in Leviathan, la gelida inquietudine di un paesaggio magniloquente diventa la metafora più immediata della condizione dei personaggi, ma non solo. È un paesaggio dalle connotazioni metafisiche, proteso a descrivere una società quasi post-umana, della quale rimangono simulacri vuoti, come lo erano le carcasse delle barche in Leviathan. Questa centralità invadente e costante dello spazio, al contempo riconoscibile e irreale, è ancora più efficace e potente di quanto fosse nel lavoro precedente dell’autore. Riecheggia infatti anche nelle sequenze svolte in interni, percepibile fuori dagli appartamenti e continuamente richiamata dai leggeri e talvolta impercettibili movimenti di macchina che, avvicinandosi all’azione, inchiodano ulteriormente i personaggi al loro contesto fisico e geografico.

Centralità del paesaggio, elevato quasi a personaggio, e mobilità sussurrata del disegno di regia: altri due scarti decisivi rispetto al canone del cinema naturalista, e in qualche modo più ovvio; una maniera per cercare l’essenza della realtà andando oltre l’immediatezza di uno sguardo diretto. Nella stessa ottica Zvyagintsev lavora l’estrema tensione alle geometrie e alle posizioni dei personaggi nello spazio, e la quasi totale assenza di primi piani. Grazie alla prevalenza di campi lunghi e medi, i personaggi sono sempre sottomessi all’ambiente, intrappolati in esso. Tutti segnali di uno stile sempre più consapevole, personale e forte. Loveless realizza così uno sconsolato e tuttavia emozionante apologo su una società il cui disfacimento morale, sociale e politico è ormai irreversibile. Lo fa senza dimenticare la potenza trasfigurante del cinema.