Incominciamo dalla fine: l’ultima inquadratura di Call Me by Your Name di Luca Guadagnino, quella che ne accompagna i titoli di coda, è un primissimo piano di Elio, il personaggio interpretato dalla rivelazione Timothée Chalamet. In un intenso long take il giovane protagonista del film piange di fronte alla macchina da presa. Quel volto che gli spettatori hanno visto percorso da paura, desiderio, felicità e amarezza è attraversato dalle lacrime. È inverno ormai. I prati verdeggianti in cui Elio ha sperimentato per la prima volta cosa possa voler dire amare sono ricoperti di neve e il trentenne Oliver, il primo uomo della sua vita, è lontano tanto quanto può esserlo una telefonata intercontinentale dove si parla di futuro e dell’apparente sicurezza di un’altra vita. Piange Elio, a favore di macchina e con gli occhi puntati verso lo spettatore, compagno silenzioso del suo viaggio iniziatico. Ma ciò che scuote il protagonista è la lacerazione per un passato che non potrà tornare mai più o il dolore per un futuro in cui quell’amore non potrà trovare posto? O ancora è la semplice contemplazione della felicità e del suo carattere transitorio, del suo essere effimera e così reale al tempo stesso?

Con Elio piange lo spettatore del film, che con lui ha trascorso 130’, che in lui si è identificato e ha condiviso sullo schermo il tempo di un amore, l’immagine di una felicità destinata a svanire e che solo il cinema è in grado di riportare in vita.

Call Me by Your Name è un film sul tempo dell’innamoramento e dunque un film sulla materia stessa del cinema, per come questo è in grado di cristallizzare in immagini brevi porzioni di vita strappandole al flusso dell’esperienza per riconsegnarle all’eterno presente della visione/memoria cinematografica. Il tempo dell’innamoramento è nel film di Guadagnino una dimensione assoluta in cui, come in un placido pomeriggio d’estate in cui oziosamente si susseguono le ore, le dinamiche legate al dovere svaniscono e a governare resta soltanto il ritmo del desiderio, quell’elemento che rende ogni gesto, ogni filo d’erba, ogni raggio di luce qualcosa di irripetibile, un qui e ora in cui i due amanti (e lo spettatore) sono destinatari unici e assoluti di tutto ciò che li circonda.

Nei film precedenti di Guadagnino, in Io sono l’amore come in parte anche in A Bigger Splash, l’irrompere del desiderio era elemento che, seguendo il “teorema” pasoliniano, sovvertiva un ordine innanzitutto sociale e di potere. La tensione erotica diventava il motore per una presa di coscienza nei confronti di un contesto e delle gerarchie che lo governano. In Call Me by Your Name accade qualcosa di profondamente diverso: l’amore fra Elio e Oliver prende vita in un ambiente familiare fluido, dove i ruoli sono mobili e orizzontali, dove un padre può farsi portatore per un figlio dell’affetto che si vorrebbe di una madre e una madre può essere figura rassicurante e misuratamente disincantata, con tanto di sigaretta fra le labbra anche al volante dell’auto. Ciò che la passione porta nella famiglia di Elio non è rottura di un ordine che nei fatti già è stato superato, non è riscatto nei confronti di una società che con le sue rigidità pare lontana tanto quanto lo è la città dal buen retiro nella campagna del nord Italia in cui il film è ambientato. Ciò che l’irrompere di un desiderio inaspettato provoca nella famiglia di Elio è una forma di riscatto nei confronti del tempo, la realizzazione quasi per procura di un amore mancato, il tornare alla vita del desiderio negato di un padre che prende vita nelle membra di un figlio. Ancora il presente assoluto dell’amore che mediante un processo di identificazione riscatta i rimpianti del passato e proietta nel futuro l’idea stessa di felicità.

Guadagnino ci ricorda che nulla come il cinema è in grado di restituire il tempo perduto, consegnando al futuro un’idea di felicità (im)possibile. Pur priva della materialità dei corpi, l’immagine raccoglie quella luce che si rifrange sulla pelle e trasforma il carattere transitorio dell’esperienza in materia eternamente riproducibile per lo sguardo. Non è probabilmente un caso, da questo punto di vista, che il film sia percorso da una fortissima tensione proustiana. Proprio Proust è infatti da anni oggetto dei corsi che André Aciman, l’autore del romanzo da cui è tratto il film, tiene presso la City University of New York. Abbandonata la tensione verso la monumentalità viscontiana rivisitata in chiave pop, Guadagnino con Call Me by Your Name apre il suo cinema ad una rinnovata affezione per la presenza e per il gesto che ha una chiara matrice rosselliniana e che tenta di fissare l’essere nel mondo più che una sua elaborazione estetica. In una rivisitazione di quanto accade alla Bergman in visita a Pompei, sono i resti di antichi bronzi rinvenuti per caso sul fondo di un lago a muovere alla commozione i protagonisti del film, frammenti di una bellezza perduta che pur nel loro stato di frammento riportano alla vita un passato di perfezione e totale compimento.

Se decidiamo di assecondare una delle armi più potenti in mano a chi fa il cinema, e ci abbandoniamo all’identificazione come forma automatica di rispecchiamento, allora i grandi film d’amore sono a ben vedere il centro del desiderio di ogni spettatore, metafora di quel meccanismo profondo che ancora oggi continua malgrado tutto ad attrarci verso il racconto cinematografico. Come Elio e Oliver arriveranno a scambiarsi la propria identità, dicendosi “chiamami con il tuo nome”, così lo spettatore potrà cedere al film un pezzo di sé identificandosi con i suoi personaggi. In cambio tenterà di intravedere nella filigrana della loro storia un pezzo del proprio vissuto, un’assonanza con ciò che è stato o la proiezione di ciò che ha lasciato confinato nella pura immaginazione. In questo la gestione dello spazio nel film gioca un ruolo fondamentale. Film di languidi attraversamenti in interni e in esterni, Call Me by Your Name trasforma la campagna del cremasco in qualcosa di più di un semplice palcoscenico sul quale ha luogo la vicenda di questi due amanti. Privilegiando una luce naturale e il chiaro di luna, Guadagnino costruisce intorno a Elio e Oliver un mosaico di dettagli (e di futuri ricordi) che rendono di una qualità quasi tattile lo spazio che circonda gli attori, un terzo personaggio che ineluttabilmente assorbe l’amore e il suo tempo.

Guadagnino, forse memore dell’incomprensione prossima all’ottusità con cui la critica italiana stenta ad accogliere fino in fondo la sua fede assoluta nel cinema, si diverte a inserire nel film delle piccole schegge di storia del nostro paese. L’alba dell’era Craxi, il Pentapartito, Beppe Grillo alla TV prima dell’editto socialista: tutti questi elementi sono per i personaggi del film un rumore di fondo che proviene da tutti quei mondi possibili che si stanno per aprire, ere nuove per l’Italia cariche di aspettative che lo spettatore non può che cogliere con l’ironia di chi vede quel futuro come qualcosa di ormai sfiorito e lontano nel tempo. Questi elementi di cronaca non fanno che rafforzare il vero cuore della narrazione, quel presente assoluto che anche per lo spettatore non verrà mai scalfito, nemmeno nella consapevolezza dell’ineluttabilità della fine della storia fra Elio e Oliver, nemmeno dal destino tragico che vorrà (forse) il nostro paese guidato da quello che negli anni ’80 era soltanto un comico della TV del sabato sera. Futuri possibili per noi ancora ignari spettatori della Storia che si compie fuori dallo schermo.