Fenomenologo del contemporaneo, topografo di una quotidianità magra e antieroica, Mike Leigh ha intessuto con il period drama un rapporto amichevole ma lasco. Dall’addizione del dilettevole Topsy-turvy, del Leone d’oro Il segreto di Vera Drake e dello splendido Turner, la somma che si cava non supera il 3. Per di più, le trasferte nel passato del maestro inglese, nel diciannovesimo come nel ventesimo secolo, hanno sempre manifestato il bráhman di una cinematografia ostinatamente fedele a se stessa. Peterloo, già proiettato a Venezia 75, non fa eccezione.

Neologismo coniato per assonanza con Waterloo, il sostantivo del titolo riassume gli eventi, inclusa la sanguinaria mattanza, del 16 agosto 1819, quando, stremato dalle ripercussioni economiche del conflitto contro l’impero napoleonico e dagli abusi della corona, il popolo britannico scese in corteo a St. Peter Field, in un sobborgo di Manchester, per reclamare, in primis, l’allargamento del suffragio. Animata da militanti radicali, tra cui il carismatico e altezzoso Henry Hunt, la cittadinanza sfoga pacificamente la propria rabbia per un sistema tributario iniquo e per i privilegi concessi ai notabili, ma la sua determinazione intimorisce la magistratura, il governo, il reggente il trono. E l’intervento della cavalleria sortirà una carneficina.

Oltre all’assenza, di per sé sorprendente, degli attori-vessillo (i consueti Broadbent, Manville, Sheen, Spall), la pellicola presenta alcuni tratti di una discontinuità più apparente che sostanziale con il pregresso. Al di là del budget ingente, colpiscono certe scelte che vanno nella direzione del kolossal da parte di un autore alieno a ogni forma di massimalismo: oltre due ore e mezza di durata, falangi di comparse, lo sfoggio dei costumi pregiati e minuziosi dell’ottima Jacqueline Durran (ormai collaboratrice fidata, ma qui chiamata a fare gli straordinari), il respiro e la grandiosità di alcune sequenze, a cominciare da quella della strage (ove, tuttavia, così rigoroso è il controllo dell’immagine, scevra di schizzi ematici e frattaglie, da sventare qualsiasi pericolo di compiacimento esibizionistico della brutalità).

Eppure, Leigh c’è. Nella compassione per le “gente meccaniche, e di piccol affare”, nell’ordinaria intimità di certi interni familiari, nell’attenzione agli arnesi più minuti e umili, sicché alcune scene paiono nature morte di Jean-Siméon Chardin. E, ancora, nei volti. Semplici, smunti, segnati, perplessi, indignati o rilucenti di belle speranze. Peterloo si compone in gran parte di primi piani, perché, come sempre, al regista, più della retorica reboante e ampollosa della politica, più dell’ideologia, interessano le persone, gli scarti che, poco per volta, l’avanzata della Storia può operare nella coscienza dell’uomo qualunque, l’orma che accadimenti epocali lasciano sulla battigia umida dell’interiorità. Peterloo è, in fondo, un film epico-lirico, come poteva girarne Vsevolod Pudovkin negli anni Venti. Anche se, per Leigh, l’epilogo è aperto su un altrove cronologico e geografico: i fatti di St Peter’s Field proseguiranno nelle lotte e nelle sollevazioni che scuoteranno, da lì in avanti, l’Europa della Restaurazione.

L’artista sembra sapere molto bene che, come avvisano Marcel Proust e Il tempo ritrovato,  “un’opera imbevuta di teorie è come un oggetto su cui si lasci il cartellino del prezzo” e, per questo, bilancia ogni omelia e discettazione su principi e valori con spaccati di vita vissuta, siano lo scambio della buonanotte tra moglie e marito proletari o l’impaccio di una cameriera imbranata. E a conferire naturalezza all’interagire dei personaggi contribuisce anche l’abitudine del cineasta a non approntare sceneggiature blindate, ma a costruire la drammaturgia come un work in progress insieme agli interpreti. Non tutte le scene hanno un valore dimostrativo o diegetico determinante, ed è un bene, perché ciò consente allo spettatore di tirare il fiato. A tal proposito è delizioso, per sospensione e poesia, il passo in cui le due popolane si fermano, durante una passeggiata in campagna, ad ascoltare i tre violinisti che suonano. Anche la più insignificante delle esistenze contiene attimi d’idillio. Per i registi che sanno coglierli.