Ogni epoca ha l’Ebreo Errante che le compete. Al secondo decennio del terzo millennio è toccato Howard Ratner. Anche lui ramingo e instancabile, con le strade di New York a sostituire quelle di Gerusalemme, anche lui incline a seguire le leggi non scritte del cabalismo, anziché quelle codificate e indiscutibili della società dei consumi. Howard non si contrappone alla legge del Capitale, anzi, la incarna in più segmenti del percorso compiuto dal denaro: dallo splendore originario, nelle miniere etiopi in cui la gemma grezza (opale nero, e non diamanti, come da scellerato titolo italiano) viene estratta, alle viscere del pesce in cui viene trasportata – passando per una metaforica ispezione rettale – giù giù fino al cash flow del Diamond District di Manhattan. Howard dà corpo al pregiudizio sul rapporto con il denaro che da sempre accompagna gli ebrei, ma lo contrasta con la fragilità autolesionista di un figlio della nostra epoca, assai poco parsimonioso, che intende prima di tutto living the high life, per dirla con Kanye West, inseguire una forma perversa di sogno americano, che transita da una componente di masochismo (primo gioco dei fratelli Safdie attraverso la quarta parete: Julia Fox, interprete dell’amante di Howard, è stata davvero una dominatrix). Ma Howard non ha mai scelta, non ne può fare a meno. Deve trasformare splendidi gioielli in grotteschi gremlins luccicanti, è più forte di lui. “È così che lui vince”. Il senso di comunione profonda, quasi soprannaturale, di Howard con il denaro e i preziosi procede di pari passo con la patologica incapacità di trattenerli. Howard deve distruggere quel che ha creato e abbandonare immediatamente la comfort zone, per sentirsi vivo, e a proprio agio, in un mondo irreale creato intorno a sé. Un’isola-che-non-c’è a misura di un Peter Pan fuori tempo massimo, che si è arreso al suo fanciullo interiore e alla sua dipendenza dall’adrenalina, inseguendo il lucore di un bling bling che non è quello dei gioielli ma del glitter, del cerchio magico dei VIP, di Kevin Garnett, di The Weekend. Nell’era dei social l’Ebreo Errante non cerca una redenzione impossibile per aver negato il sacro, cerca un posto al sole su Instagram per poter impressionare quel figlio con cui non è in grado di relazionarsi in altro modo, o si serve della mediazione di una chat per appagare la libido di un momento sexy. In Kevin Garnett, campione NBA con i Boston Celtics, altrimenti detto “KG!” – come da mantra ostinatamente ripetuto da Howard – il nostro trova un inatteso e improbabile alter ego: li unisce l’opale nero, porta dimensionale verso una forma di percezione cosmica, li unisce una disperata ricerca del tempo perduto e la paura di invecchiare, di doversi fermare e accettare i molti oneri e i pochi onori di una vita ordinaria. Di questo parlano con gli occhi, senza affrontare l’argomento, Howard e KG. L’uno, un personaggio totalmente fittizio, una caricatura che diviene ideale strumento allegorico; l’altro, una versione fittizia e odierna del vero KG, che nel 2012, anno in cui è ambientato Diamanti grezzi, aveva 36 anni e si stava giocando l’ultimo segmento di carriera. Ci sono 7 anni di differenza tra il Garnett che dialoga con Howard e il found – per così dire – footage che lo ritrae in azione con la maglia dei Celtics. Nel gioco invisibile che i Safdie instaurano con il pubblico, attraverso la quarta parete, siamo consapevoli che il KG nel piccolo schermo è prigioniero di una storia di cui è già stato scritto il finale, inafferrabile nella sua perfezione cristallizzata come lo è il passato che non ritorna. Come un opale nero, di cui si può sondare la profondità con lo sguardo, ma di cui non si può afferrare il mistero. Il futuro, invece, è il Gigi D’Agostino che ci attende al capolinea dopo tanto Daniel Lopatin, l’inevitabile approdo di un viaggio a rotta di collo nel cuore del caos senza ritorno. Fatto di rumore, musica, dialoghi debordanti e sovrapposti, porte che non si aprono e contro-ruoli impensabili (Eric Bogosian costantemente silenzioso, quasi attonito), climax che non esistono perché il protagonista stesso continua a sabotarli. Fatto di grande cinema, soprattutto.