A metà di Tenet (che cos’è la metà di un palindromo? esiste la metà di un palindromo? ti ricordi quando inizia un sogno?) c’è una scena ambientata in due stanze dal diverso colore separate da un vetro/schermo. Una stanza è di colore rosso e una stanza è di colore blu: in prima battuta viene da pensare a Matrix (l’offerta di Morpheus, l’addormentatore), a una stilizzazione funzionale a coordinare l’azione, o a una spiegazione scientifica. Poi invece torna alla mente l’anaglifo, l’immagine stereoscopica che, se osservata mediante appositi occhiali dotati di filtro complementare, fornisce l’illusione di tridimensionalità. L’illusione, appunto, scopica, come sempre ricorre in Nolan. Ci sono solo altre due scene che equivalgono in importanza questo punto mediano del film, e sono l’inizio e la fine: il prologo all’Opera di Kiev, con l’immagine aperta di una platea che viene addormentata e forse sogna, in un teatro specchio della sala cinematografica fino alla rottura prospettica e l’inizio dell’azione; il finale, dove il cinema del regista si chiude, trova il suo posto in epifania, con il prestigio dell’amore filiale che svela il motivo dell’illusione. La scena delle stanze funziona da cerniera e punto di equilibrio tra le altre due e, pur essendo meno importante di loro a livello tematico o in termini di impatto cinematografico, le reinquadra in prospettiva.

È in questa scena infatti che sembra condensarsi tutta la ricerca estetica del regista, che qualcuno ha detto “assente” e “timida” e che invece proprio qui si mostra, fragile e aperta, in una sintesi precisa, superficiale, cromatica, ottica. È in questa scena che Nolan incrocia i suoi due punti fermi teorici, la delegittimazione della vista e l’illusione del tridimensionalismo. Nel primo caso il progressivo smantellamento del vedere come senso di conoscenza del mondo – in ogni suo film il segno “cecità” è dominante, dall’inutilità del vedere senza memoria di Memento all’indicibilità dei doppi di The Prestige, dalla disintegrazione del concetto di realtà di Inception al fantasma di Interstellar e alle disseminate presenze senza occhi di Dunkirk: questa contrazione incontra il definitivo culmine, dato dall’irrilevanza del punto di vista rispetto all’annullamento e all’attivazione segnica delle azioni nel tempo (nella camera rossa l’azione si svolge, in quella blu si disfa, e viceversa, ciò che si vede si annulla). Nel secondo caso la costruzione dell’immagine bidimensionale è assaltata in primis da interventi segnici e grammaticali tridimensionali (dalle linee prospettiche al senso di trasparenza del vetro) che spezzano, quadrettano il cerchio del loop, come fa anche la cornice quadrata che contiene gli anelli palindromi del Quadrato del Sator; in più poi anche dal dispiegamento stereogrammatico, dalla messa in scena di un anaglifo senza occhiali.

In questa contrapposizione di colore Nolan trascina la sua teoria del montaggio alternato – la sincronizzazione della diacronia con cui rendeva tridimensionale e ambiguo il piano dell’esperienza dei suoi altri film – a una riduzione, a una sintesi, esperienziale, pregrammaticale, a qualcosa che ha a che vedere con le reazioni della memoria e dell’inconscio della visione, qualcosa che ricorda il meccanismo del battito del cuore – le due vie del sangue, rossa e blu, che attraversano le camere intrecciandosi. È curioso che la scena racconti lo stesso evento ma sdoppiato, come quando si tolgono gli occhialini 3D e si vedono due immagini correre parallele: qui l’immagine corre parallela ma all’inverso, una per occhio, squarciato dalle due direzioni quanto l’immagine che viene aperta, strappata. Cosa ottiene Nolan da questo incrocio di cecità e scoperta illusione tridimensionale? Il punto sintetico del suo discorso sulla nostra posizione rispetto all’immagine del tempo digitale, del tempo dell’informazione, sulla progressiva valorizzazione di questa immagine come unica realtà disponibile e diffusa, sul disfacimento della stessa come piattaforma di conoscenza, sull’azzeramento del reale come lo conosciamo e sulla complementare affermazione del principio di realtà (del compromesso del punto di vista). L’immagine di Nolan non è falsa, ma falsificata dall’illusionista, dal falsario (Arepo), che attiva la consapevolezza della fine della vista, della fine del conoscere come senso dominante e pone le speranze nel credere, nell’atto di fede, nell’atto del cuore nei confronti della realtà materiale delle cose, nella sua fisica e nella sua morale. Il sentimento in Nolan attraversa il prisma del trucco per riapparire come discorso scopico, discorso sull’occhio e sul cuore. Quando Kat esamina il Goya falso e dice che ha bisogno di tempo per decifrare il suo inganno il Protagonista le domanda “Cosa ti dice il cuore?”. Il cinema di Nolan, al di là dei giudizi di merito, sta qui.