Il luogo è la Macedonia del Nord, in quella vastità montuosa che circonda il fiume Bregalnica. Un paesaggio disseminato di rocce e sterpi, valli disertate dall’uomo, pendii brulicanti di vitalità selvatica. La macchina da presa solca la regione, la attraversa con curiosità errabonda: sorvola creste dentate, girovaga tra arbusti spinosi, si sporge su precipizi e avvallamenti. E accade all’improvviso, come una scintilla che divampa, quella stessa scintilla di serendipità che accende il cinema del reale: durante l’esplorazione naturalista, lo sguardo si imbatte nella figura umana. Le si avvicina, le si affeziona, la riscopre. Partendo da lei, dalla sua vita e dalle sue relazioni, potenzia la narrazione originaria e documenta gli equilibri del mondo: natura e uomo, insieme, si raccontano a vicenda.

È questa la storia di Honeyland, un’avventura filmica che i registi macedoni Ljubomir Stefanov e Tamara Kotevska hanno portato avanti per più di tre anni nel remoto e cadente villaggio di Bekirlija. Concepito inizialmente come cortometraggio documentario sul fiume Bregalnica, il film ha subito una svolta radicale dopo l’incontro con Hatidže, apicoltrice locale e ultima abitante del villaggio, rimastavi per accudire l’ormai anziana e inferma madre. La pellicola cambia soggetto ma riconferma la sua vocazione ambientalista in una storia tenera e universale – come testimonia il grande successo che ha riscosso presso numerosi festival tra cui il Sundance Film Festival 2019 (dove ha vinto tre premi) e gli Academy Awards 2020, dove è stato il primo film a ricevere doppia nomination all’Oscar come miglior documentario e miglior film in lingua straniera.

Il film pedina Hatidže nella sua quotidianità, in un’estetica che ne esalta la semplicità straordinaria: la donna è poco più di un puntino nell’immensità delle valli, una figurina irrequieta che scala picchi montuosi, una silhoutte che si staglia contro tramonti dorati. Hatidže si colloca armoniosamente in quello spazio selvaggio e ne amplifica la bellezza rendendosi testimone e, insieme, parte della natura in cui vive. Il suo corpo e quello della madre assecondano i ritmi luministici e spaziali della landa che abitano: l’operosità di Hatidže è spostamento continuo, gaiamente investito dalla luce solare come le api selvatiche che tanto le stanno a cuore; l’unica oscurità che conosce è il buio tiepido e soffocante del suo alveare, ovvero il tugurio che condivide con l’anziana madre, figura costantemente immobile che, per sua stessa ammissione, è più simile a una pianta nodosa e secolare che si rifiuta di morire, appena spruzzata dalla luce naturale che investe l’energica figlia. Il loro rapporto, fatto di cure, pasti e dialoghi per lo più sbrigativi, produce una dolcezza colma di profondità, uno spaccato di tragica e tenera umanità che si muove tra affetto filiale e rimpianto materno, desiderio di evasione e coscienza delle proprie radici, scoppio di vitalità e percezione di morte.

A questa armonia tra uomo e natura si oppone la famiglia Sam, un gruppetto di allevatori nomadi che si trasferisce a Bekirlija nel corso del film. La loro estraneità al luogo e alle sue pratiche secolari è subito messa in evidenza dalla furia feroce con cui percuotono il bestiame, giocano, litigano, urlano. La regia riesce raramente a inserirli in composizioni equilibrate e in ritmi conciliati: i bruschi movimenti di macchina e la colonna sonora colma di strepiti esprimono un’umanità violenta, insoddisfatta, affamata e sofferente – come i loro corpi, martoriati dalle percosse che si danno l’un l’altro e dalle punture delle api. Anche i Sam infatti si daranno all’apicoltura ma, insensibili e irragionevoli per orgoglio e necessità, non seguiranno i consigli di Hatidže – che preleva sempre solo la metà del miele prodotto – col risultato di sconvolgere i delicati equilibri naturali dell’area a scapito dell’apicoltrice stessa.

La protesta della donna è un lamento privato e quasi silenzioso, una rabbia che cede il posto al dolore: l’umanità si è ripalesata a Bekirlija e Hatidže – dopo aver accarezzato un’esistenza diversa, socializzata, più vicina ai suoi simili – sceglie di perseverare nella sua armoniosa solitudine. Senza costruzioni né artifici, il cinema del reale restituisce un racconto intenso e toccante, ma anche una meditazione sui delicati equilibri che intercorrono tra uomo e ambiente – e lo fa proprio a partire dalla loro inevitabile coesistenza. L’umanità, in Honeyland, non è contrapposta all’ecosistema che abita né sua carnefice ingrata e opportunista, ma è essa stessa natura. Le due sono, al tempo stesso, protagoniste e palcoscenico dello stesso spettacolo: Hatidže si muove nel teatro della natura, ma anche l’ambiente agisce e influenza la donna, le sue relazioni, il suo destino. Lo spettacolo del reale, in Honeyland, è spettacolo della vita, in tutte le sue forme. Spettacolo che il cinema ci consegna, con sobrietà e tenerezza, in un messaggio colmo di responsabilità e amarezza, ma anche di speranza.