Nel descrivere la storia del cinema come un intreccio di questioni economiche, autoriali e tecnologiche, si rischia di sottovalutare che senza corpi a incarnarne i punti di svolta, le norme e i folgoranti strappi in avanti questa storia sarebbe pressoché avvolta nella nebbia. La strana vicenda del cinema, in quanto storia di immagini mercificate, non può che essere anche e in gran parte storia di interpreti, attori e attrici, storia dei loro volti e delle loro parole, della successione dei sogni altrui in cui hanno vissuto dinanzi all’incantata veglia di un pubblico. I corpi degli attori, quelli che segnano le epoche e trasfigurano in icone, non arrivano mai per caso. Indicano sempre qualcosa in più di quel che mostrano, rivelando modelli, valori, pulsioni e logiche di consumo della loro società. Così come è servita la prorompente sensualità di Marlon Brando in canottiera – proprio la sua e non quella di un altro – per far apparire di colpo antiquata la composta eleganza di signori del calibro di Cary Grant e Clark Gable, allo stesso modo, vent’anni dopo, la rottura provocata dai film della New Hollywood avrebbe specchiato con minore potenza la crisi dell’America se privata della nevrotica fisicità di Pacino, De Niro, Hoffman e compagni. Tra Stallone e Chalamet, tra Marilyn Monroe e Kristen Stewart, ci passa una rivoluzione, uno smottamento di paradigma che investe la politica, i costumi e lo sguardo di intere comunità di spettatori.

Oggi, bisognerebbe chiederselo, forse nessun interprete riflette lo smarrimento dell’Europa, il suo disagio e la sua fragile inquietudine, come Franz Rogowski (Friburgo, 1986). Domandarsi la ragione del suo successo – coronato in ultimo anche da MUBI, che gli ha dedicato una sezione nel catalogo -, oltre a chiarirne i contorni, significa pensare a dove si è e dove si sta andando, quali nuove condizioni di mascolinità si stanno esplorando e quali storie, secondo quali sensibilità, si scelgono di raccontare nel nostro continente. Transit – La donna dello scrittore (2018) di Christian Petzold traspone in un ambiguo presente l’occupazione tedesca della Francia durante la Seconda guerra mondiale. Rogowski interpreta un dissidente politico che da Parigi fugge verso sud per evitare la cattura. Lì, quasi per caso, assume l’identità di un noto scrittore morto e instaura una relazione clandestina con sua moglie. In una scena del film Rogowski cerca sistemazione in una piccola pensione, ma la donna che la gestisce, impaurita dalle conseguenze di offrire riparo a un possibile ricercato, gli fa capire di poter sostare in albergo solo a patto di dimostrare di volersene andare quanto prima. Restare dunque, ma solo se disposti a non rimanere.

È in questo paradosso, tipico del cinema di Petzold in quanto definisce un’impossibile identità tramite una durata priva di coordinate, che si può trovare un filo conduttore nella versatile e ormai decennale carriera di quest’attore. Dalla prima parte da protagonista in Love Steaks (2013) al caricaturale ruolo di pianista e inventore fallito di Freaks Out (2021), molti dei suoi personaggi appaiono stranieri a loro stessi ancor prima che all’ambiente in cui agiscono o, meglio, in cui si trovano a reagire. Intimamente scissi, inadatti a vivere la vita così com’è ma incapaci spesso di immaginarne di diverse, sono giovani uomini in bilico tra un presente irto di inciampi e un passato nebuloso, cui raramente si fa cenno o se ne spiega il dolore. Se grazie a Victoria(2015), in cui recita la parte di un ragazzo della periferia di Berlino invischiato in pericolosi affari criminali, Rogowski guadagna le prime attenzioni, è prima e dopo che ha reale modo di mostrare la sua differenza, abbandonando i consumati stereotipi del delinquente e intendendo la recitazione come un minuzioso lavoro a togliere, un processo di costante sottrazione che gli permette di scolpire nel blocco della sua impassibilità intensi attimi di turbamento. Il paragone che spesso viene avanzato con Joaquin Phoenix, per il simile difetto congenito alle labbra, il conseguente strascicamento della pronuncia, la voce impastata e l’attitudine da romantico emarginato, è solo in parte azzeccato perché si limita a cogliere l’aspetto più notturno ed evidente di Rogowski, tralasciando il resto.

In questo senso Love Steaks, In the Aisles (2018) e Figaros Wolves (2017) sono film che aggiungono particolarità al discorso, rivelando Rogowski anche come credibile corpo sentimentale, in grado di innamorarsi ed entrare in relazione comica con lo spazio nel quale si muove impacciato e malfermo. In specifico nei primi due, che condividono la sostanza del soggetto, Rogowski interpreta con chiare affinità il ruolo dell’inesperto e disorientato nuovo arrivato in un ambiente di lavoro. Massaggiatore in un resort in Love Steaks, commesso di un supermercato in In the Aisles, sono simili le dinamiche con le quali si confronta, a partire da quelle amorose, sovrapponibili gli esiti ma diversi gli sviluppi. La tensione tra la goffa ma necessaria scoperta di uno spazio sconosciuto, con le sue regole e i suoi inderogabili percorsi, e la ripetuta conferma di quanto in quello spazio non si possa stare se non eternamente fuori luogo, crea un conflitto che ricorda alla lontana addirittura lo stile slapstick dei maestri, imperturbabili proprio e soprattutto mentre il mondo gli crollava intorno. Anche se minoritario nella sua carriera e assorbito pur nelle due opere in questione, in favore di più tradizionali risvolti drammatici e sentimentali, questo sfasamento rimane e conferma un dato decisivo: proprio perché così triste e malinconico, così avaro di sorrisi, Rogowski è attore che sa far ridere quasi senza volerlo, alla stregua di chi, per l’ilarità dei passanti, nel rialzarsi dopo il più esilarante dei capitomboli non accenna il minimo riso, ma prosegue serio come se nulla fosse successo.

Senza titolo

Anche in Figaros Wolves, il più strambo e debole dei film citati, la giocosa esplorazione di uno spazio sospeso, il tetto di un condominio, rimarca la stralunata prossemica di Rogowski, fungendo per il suo gentile ma spietato alter ego da ponte relazionale col femminile. Emblematica nel film è la contrapposizione, tanto rigida da sfociare nel sangue, tra la convenzione maschilista e prevaricatrice – simboleggiata dai tre bruti che violano più volte la ragazza inerme – e l’eccezione debordante interpretata da Rogowski, ancora una volta nei panni di un uomo misterioso, timido ma irrequieto, alieno da qualunque memoria narrativa perché tutto proteso verso un incerto futuro. Il fatto che Rogowski sia prima di ogni cosa un ballerino allarga il fascino dell’analisi e ne evidenzia la cruciale contraddizione: a un viso non inespressivo, ma espressivo al grado zero, al livello cioè più puro di naturalezza, corrisponde infatti un fisico da atleta, flessuoso ma forte, la cui energia più è trattenuta e più dilaga, percepibile sin nei silenzi e nelle vene, sempre sull’orlo di scattare in slancio, divenire movimento, gesto inconsulto e stravolgente.  Chi ha visto Happy End (2017) di Michael Haneke di solito ben ricorda la scena in cui Pierre, il figlio alcolista di una famiglia di ricchi industriali alle prese con uno scandalo avvenuto nel loro cantiere, balla e canta in un locale fino a contorcersi dalla disperazione. Se il film non dice granché di nuovo sulla cupa visione che il regista austriaco ha dei rapporti famigliari, quel breve frammento dice molto sulla capacità di Rogowski di esprimere sentimenti complessi, destabilizzare lo spettatore e utilizzare il corpo come estensione performativa dell’anima, chiave per oltrepassare la parola e comunicare davvero, senza grammatiche o mediazioni. In quella danza furente e sgraziata straripa il malessere dell’unica coscienza alienata all’interno di una famiglia di padroni, la sola che infine abbia il coraggio di dubitare sul proprio operato e su quello dei suoi parenti, nonché la tremenda viltà di riconoscere vano il dubbio.

Dopo la collaborazione con Angela Shanelec e la secondaria ma significativa parte oltreoceano in Hidden Lifedi Terrence Malick – dov’è l’amico un po’ bizzarro e ingenuo di un disertore dell’esercito nazista – Rogowski interpreta ruoli diversi in giro per l’Europa, confermando il suo talento nel rappresentare persone fuori posto nella società, derelitti, soggetti controversi e impenetrabili. Che sia il figlio disabile di una fanatica religiosa (Luzifer, 2021) o l’omosessuale di Great Freedom (2021), imprigionato per vent’anni a causa della bigotteria della Germania post 1945 e incapace di rifarsi una vita fuori dalla galera, i suoi personaggi sono spesso increspati e moralmente irrisolti, in cerca di riscatto personale, espiazione o soltanto di un angolo di mondo, per quanto angusto, dove piantare radici. In questa ottica persino il Franz di Freaks Out, oggetto estraneo nella filmografia di Rogowski per via dei suoi connotati esagerati e fumettistici, vive disgiunto dalla realtà, rapito da allucinazioni che lo fanno incompreso e deriso, cattivo perché inetto e ridicolo perché non cattivo abbastanza.

È stato senz’altro Petzold il regista che finora ha colto più acutamente l’enigma di questo attore, intuendone la natura tempestosa nel profondo di un’apparenza rassicurante, mite, a tratti remissiva. Non può essere casuale se in Undine (2020), come in Transit, gli affida il ruolo di un uomo innamorato che muore e risorge e che smarrendo l’amore smarrisce il senso della sua esistenza. Entrambi vivono al posto di un morto – il Christoph di Undine viene dichiarato deceduto a livello cerebrale in seguito a una nefasta immersione subacquea, ma si sveglierà inspiegabilmente dal coma poco dopo – entrambi vengono dal nulla e nessuno sa più per cosa vivere, se non per la donna che non possono avere. Un paradosso, appunto. Come un attore che recita in maniera impercettibile, a stento parla e quando accade lo fa con un filo di voce, sussurrando frasi spezzate; come promettere a chi ti ospita di non voler rimanere e intanto chiudersi la porta alle spalle, slacciare i nodi delle scarpe, dirsi finalmente in salvo.